Non è configurabile la buona fede del contribuente in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti.
È quanto ha stabilito, con l’ordinanza n. 24565 dell’11 agosto 2023, la Corte suprema accogliendo le tesi dell'Amministrazione finanziaria e cassando la decisione dei giudici tributari di secondo grado.
Con la pronuncia in parola i magistrati romani hanno, infatti, chiarito come l'ufficio finanziario, allorché si determini a emettere un avviso di accertamento per indebita detrazione relativa a operazioni inesistenti, abbia solamente l'onere di provare che l'operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l'assenza dell'operazione, non è configurabile la buona fede da parte di quest'ultimo.
Il caso di specie ed il ricorso in primo e secondo grado
L’Agenzia delle entrate emetteva nei confronti di un contribuente, ed a seguito di un processo verbale di constatazione effettuato presso una società a responsabilità limitata, un avviso di accertamento per l’indebita detrazione fiscale operata dal contribuente stesso. L’atto impositivo si fondava sull’accertato utilizzo da parte di quest’ultimo di fatture per operazioni oggettivamente inesistenti.
Impugnato l’atto dell’Ufficio dinanzi alla competente Corte di giustizia tributaria provinciale di Ragusa, il contribuente eccepiva di avere eseguito regolari operazioni sotto il profilo contabile e invocava la propria buona fede.
All’esito del giudizio di primo grado, i magistrati tributari ragusani accoglievano il ricorso del contribuente ed annullavano l’avviso di accertamento dell’ufficio.
L’Agenzia decideva, dunque, di ricorrere in appello dinanzi la Corte di giustizia tributaria della Sicilia, chiedendo l’annullamento della sentenza di primo grado.
Anche i giudici di seconde cure continuavano, però, a dare ragione al contribuente, respingendo il ricorso dell’Ufficio. I giudici isolani hanno, infatti, sostenuto che l'Agenzia non avrebbe fornito la prova che il contribuente fosse consapevole che le operazioni contestate si inserissero nella partecipazione a un fraudolento utilizzo di fatture inesistenti, ritenendo che il quadro indiziario fosse fondato esclusivamente, ed in maniera non sufficiente ai fini dell’accertamento, sulle dichiarazioni rese dalla titolare dell'impresa emittente le fatture stesse.
Avverso tale decisione, l’amministrazione finanziaria ha deciso di ricorrere in ultima istanza dinanzi la Suprema Corte di cassazione, difendendo la correttezza del proprio operato che si basava sulla multipla circostanza che l’emittente le fatture non risultava censita presso il Registro delle Imprese, non aveva alcuna sede operativa e non aveva organizzazione idonea (dipendenti e mezzi strumentali), nè risultava avere eseguito acquisti di beni o servizi.
La decisione dei giudici di Cassazione.
Chiamati a pronunciarsi definitivamente sulla questione, i giudici di legittimità hanno accolto il ricorso dell’Agenzia, cassando la decisione dei giudici tributari di merito.
I magistrati di Piazza Cavour hanno, infatti, ritenuto che nessun onere di prova gravava sull’ufficio, trattandosi di operazioni oggettivamente inesistenti per le quali non può essere invocata la buona fede da parte del contribuente.
Dopo aver ricordato come sia prerogativa dei giudici di merito quella di apprezzare l'efficacia probatoria dei singoli fatti noti, i quali vanno valutati sia analiticamente, sia sinteticamente nella loro globalità, i magistrati romani hanno chiarito che allorquando l'Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l'indebita detrazione relativamente ad operazioni oggettivamente inesistenti, questa ha il solo onere di provare che l'operazione non è mai stata posta in essere, indicandone i relativi elementi di prova, anche in forma indiziaria o presuntiva, ma non anche quello di dimostrare la mala fede del contribuente, atteso che, una volta accertata l'assenza dell'operazione, non è configurabile la buona fede di quest'ultimo. Spetterà, dunque, al contribuente stesso, dare la prova contraria, non della sua buona fede, ma bensì del fatto che l'operazione è stata effettivamente posta in essere.
Sul punto, e negli stessi termini, si era per altro recentemente espressa la stessa Corte di cassazione che con la sentenza del 18 ottobre 2021, n. 28628 aveva precisato che nelle ipotesi in cui l'amministrazione finanziaria contesti l'inesistenza di operazioni assunte a presupposto della deducibilità di costi e della detraibilità di imposte, la stessa ha l'onere di provare che l'operazione commerciale documentata dalla fattura non è stata in realtà mai posta in essere, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibili, “non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, strumenti che vengono di solito adoperati proprio allo scopo di far apparire reale un'operazione fittizia”.
E, come visto, la prova fornita dall’ente accertatore ben può essere anche indiziaria o presuntiva. Nell'ordinamento tributario, hanno infatti ricordato i giudici di ultima istanza, gli elementi indiziari, ove rivestano i caratteri di gravità, precisione e concordanza, danno luogo a presunzioni semplici idonee a fondare il convincimento del giudice che, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell'atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall'amministrazione finanziaria, consentendo al contribuente di fornire l’eventuale prova contraria alla quale è tenuto in base alla previsione di cui al secondo comma dell’articolo 2697 del codice civile (“chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento. 2. Chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l'eccezione si fonda”).
Ancora, e più specificamente sulla buona fede del contribuente in ipotesi di operazioni insistenti, la Corte ha ricordato un suo recente precedente (cfr Cassazione n. 25113/2020) nel quale era stata affermata l’indetraibilità dell’Iva per una operazione economica mai effettuata nè dall'apparente fornitore nè da chiunque altro, proprio perché in tal caso è “da escludere in re ipsa la configurabilità della buona fede dell'utilizzatore di una fattura relativa ad operazione economica che egli non può non sapere di non avere mai effettuato”.
Per quanto sopra visto, i giudici romani, definitivamente pronunciandosi sulla questione, hanno accolto le tesi dell’amministrazione finanziaria e cassato le decisioni dei giudici tributari di merito, affermando il chiaro principio di diritto a mente del quale non è assolutamente configurabile la buona fede del contribuente in ipotesi di operazioni oggettivamente inesistenti.