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Giurisprudenza

L’uso di società finta a fini propri
costituisce interposizione fittizia

Il caso esula dalla disposizione che stabilisce l’applicabilità delle sanzioni amministrative esclusivamente alla persona con natura giuridica e non agli amministratori o ai rappresentanti

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Se l’amministratore di fatto utilizza uti dominus – come se ne fosse il detentore – le risorse di una società di capitali, artificiosamente costituita, si realizza un caso di interposizione fittizia. Di conseguenza il reddito formalmente prodotto dalla società e le relative imposte sono traslate in capo all’interponente, quando l’amministrazione finanziaria dimostra il totale asservimento della società interposta, tale da provare la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto e che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi, formalmente intestati alla società. In tale ipotesi, le violazioni amministrative tributarie, formalmente riferibili alla società, vanno ricondotte in capo all’interponente, al quale spetta, pertanto, il pagamento delle relative sanzioni. Sono questi i principi enunciati dalla sezione tributaria della Corte di cassazione, con la sentenza n. 1358 del 17 gennaio 2023.

Il fatto
Il giudizio verte sulla controversia instaurata a seguito della notifica di un avviso di accertamento emesso nei confronti di una società di capitali, ritenuta una mera cartiera nell’ambito di una frode carosello Iva, e notificato anche al contribuente, quale autore delle violazioni in qualità di amministratore di fatto dell’ente.
 
Nel caso era stato acclarato, che l’amministratore avesse utilizzato la società al fine esclusivo di porre in essere una frode, consistente nell’acquisto di autovetture in Germania e nella rivendita delle stesse, omettendo il versamento dell’Iva e beneficiando direttamente dei proventi di tale attività illecita. In altri termini, la società, irregolarmente costituita, è stato lo strumento attraverso il quale si è esplicata l’attività criminosa facente capo all’amministratore di fatto, il quale è stato ritenuto direttamente responsabile delle imposte non versate dalla società e, quindi, come tale, destinatario anch’egli del medesimo avviso di accertamento emesso nei confronti della società, con relativa irrogazione delle sanzioni.

L’amministratore di fatto ha impugnato l’atto impositivo, lamentando violazione dell'articolo 7 del Dl n. 269/2003, il quale stabilisce che le sanzioni amministrative, relative al rapporto fiscale proprio di enti e società provviste di personalità giuridica, sono esclusivamente a carico della persona giuridica e non sono applicabili agli amministratori o ai rappresentanti.

Il ricorso proposto dal contribuente è stato respinto in entrambi i primi gradi di giudizio. Avverso la sentenza della Ctr, il contribuente ha, quindi, proposto ricorso per cassazione, evidenziando di essere soggetto giuridicamente distinto dalla società di capitali, con la conseguente illegittimità dell’imputazione dei redditi formalmente prodotti dall’ente e delle relative imposte e sanzioni.

La Corte di cassazione ha ritenuto infondato il motivo di doglianza e ha rigettato il ricorso, con condanna alle spese.

La decisione
La Corte suprema torna a esprimersi sul tema della responsabilità delle sanzioni amministrative tributarie in caso di rapporti fiscali facenti capo a società di capitali, artificiosamente costituite a fini illeciti, fornendo importanti indicazioni anche sul lato sostanziale.

Al riguardo, l’articolo 9, comma 1, del Dlgs n. 472/1997, sancisce il principio generale per cui, nei casi in cui una violazione sostanziale, incidente sulla determinazione o sul pagamento del tributo, è commessa “dal rappresentante o dall'amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell'esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l'associazione o l'ente nell'interesse dei quali ha agito l'autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso”. A tale norma è succeduto l’articolo 7 del Dl n. 269/2003, il quale, come anticipato, sancisce, al primo comma, che “le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica.” Pertanto, dopo l’entrata in vigore del citato articolo 7, le sanzioni amministrative relative al rapporto tributario proprio di società o enti con personalità giuridica, sono esclusivamente a carico della persona giuridica, anche quando, almeno in linea di principio, l’entità sia gestita da un amministratore di fatto. Si deve pertanto escludere il concorso tra società e amministratore di fatto perché l’articolo 9 del Dlgs n. 472/1997 è stato superato dalla norma del 2003. che prevede espressamente l’applicabilità delle disposizioni del decreto del 1997, “ma solo in quanto compatibili”.

Questo significa che, fino alle violazioni non ancora contestate o per le quali la sanzione non fosse stata irrogata alla data di entrata in vigore del decreto n. 269/2003, l'amministratore di fatto della società, alla quale fosse riferibile il rapporto fiscale ne avrebbe risposto direttamente, in base al principio di legalità sancito dall’articolo 3, comma 2, del Dlgs n. 472/1997, secondo cui “nessuno può essere assoggettato a sanzioni per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce violazione punibile”.

Tuttavia, la regola dell’esclusiva riferibilità alla persona giuridica, incontra un limite importante nella artificiosa costituzione ai fini illeciti della società di capitali. In altre parole, la sanzione pecuniaria è riferibile all’ente quando la persona fisica che ha commesso la violazione lo abbia fatto a esclusivo interesse e beneficio della società amministrata, dotata di autonoma personalità giuridica.

Diversamente, se l’amministratore (anche di fatto) della società abbia agito nel proprio esclusivo interesse, utilizzando l’entità come una mera fictio giuridica, creata nell'esclusivo interesse della persona fisica autrice della violazione, le sanzioni amministrative tributarie devono essere irrogate nei confronti della persona fisica che ha beneficiato materialmente delle violazioni contestate perché, in questo caso, “la persona fisica che ha agito per conto della società è, al contempo, trasgressore e contribuente”. In tale circostanza non operano le disposizioni speciali contenute nell’articolo 7 del Dl n. 269/2003 e deve essere ripristinata la regola generale, secondo cui la sanzione amministrativa pecuniaria colpisce la persona fisica autrice dell’illecito.

Il fatto interessante è che tale principio riguarderebbe, al di là dell’aspetto sanzionatorio, anche la pretesa sostanziale e il relativo debito tributario. In altri termini, se l’amministratore ha utilizzato lo schermo societario a suo esclusivo interesse è ragionevole presumere che abbia tratto esclusivo beneficio anche dei proventi formalmente prodotti dalla società.

In buona sostanza, ci si trova di fronte a un caso di interposizione fittizia che, dal lato reddituale, è regolata dall’articolo 37, comma 3, del Dpr n. 600/1973, per cui, in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio, sono imputati al contribuente i redditi di cui appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni semplici, purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che egli ne è il possessore effettivo per interposta persona.
 
La ratio della norma è quella di evitare che l’effettivo possessore di un reddito si sottragga al prelievo, occultando la propria identità all’amministrazione finanziaria, attraverso interposizioni negoziali che attribuiscono formalmente a terzi il possesso di detto reddito.

Il principio è certamente applicabile anche al caso del reddito d’impresa, in cui il soggetto interposto è la società di capitali. Affinché possa contestarsi la traslazione del reddito dalla società-interposta all’amministratore di fatto-interponente, è necessaria la dimostrazione che la posizione di quest’ultimo non sia solo di mero gestore della società ma “di soggetto che disponga uti dominus delle risorse del soggetto interposto”.

In tale ipotesi, incombe sull’amministrazione finanziaria la prova, anche presuntiva, del totale asservimento della società interposta all’interponente, tale da dimostrare la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto e che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società.

Per l’effetto, il reddito d’impresa è traslato sull’interponente, il quale a sua volta avrà l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione o della mancata percezione dei redditi d’impresa. Al contempo, l’interposto potrà vantare il proprio diritto al rimborso delle imposte pagate per i redditi imputati al contribuente, ai sensi dell’articolo 37, quinto comma, Dpr n. 600/1973, condizione che legittima il riconoscimento, ove ne sussistano i presupposti formali e sostanziali, anche del diritto alla detrazione (ex articolo 19, Dpr n. 633/1972).

In base al delineato contesto normativo, nel caso in esame, il contribuente non riveste solo la posizione di mero amministratore di fatto della società, ma è l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società come se fossero stati da lui prodotti. Ne consegue che le sanzioni correlate agli inadempimenti devono essere imputate a lui e non alla società.

In calce alla sentenza, la Corte ha quindi sancito una serie di importanti principi di diritto.
In primo luogo, in tema di accertamento sulle imposte dirette e sull’Iva, nei confronti del soggetto che abbia gestito uti dominus una società di capitali si determina, ai sensi dell’articolo 37, terzo comma, del Dpr n. 600/1973, la traslazione del reddito d’impresa, e delle relative imposte, in quanto effettivo possessore del reddito della società interposta.

A tal fine, l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare, anche solo in via indiziaria, il totale asservimento della società interposta all’interponente, spettando quindi al contribuente l’onere di fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione, ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto.

Dal lato sanzionatorio, nell’interposizione del gestore uti dominus alla società di capitali interposta non ha rilievo il rapporto fiscale proprio di quest’ultima, ma quello che fa capo direttamente all’interponente, in quanto effettivo possessore del reddito d’impresa, sicché, “risultando come se il reddito fosse da lui prodotto, la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7 del D.L. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività”.

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