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Giurisprudenza

Market ceduti per schivare il Fisco:
sequestro preventivo sempre valido

Quando l’azione cautelare è disposta per il reato di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, non rileva la decisione della Commissione tributaria che ha ridotto la pretesa dell’erario

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I rami d’azienda appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca, in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato. Lo ha affermato la Cassazione nella sentenza n. 36346 del 22 agosto.
 
I fatti
Il legale rappresentante e liquidatore di una srl, in concorso con il fratello, pure amministratore, ha compiuto più atti fraudolenti al fine di permettere alla società di sottrarsi al pagamento delle maggiori imposte sui redditi e sul valore aggiunto accertate dall’Agenzia delle entrate per il 2012, con avviso notificato il 14 gennaio 2016. Tali atti consistevano non solo nel trasferire i rami d’azienda di proprietà della predetta società, ma anche nella sua successiva messa in liquidazione. Gli amministratori indagati, cioè, con atto del 19 maggio 2016, avevano trasferito gli immobili alla srl della quale era legale rappresentante la madre. A sua volta la donna, dodici giorni dopo, il 31 maggio 2016, aveva stipulato due contratti di affitto di ramo aziendale aventi a oggetto, in un caso, un supermercato, e, nell’altro, i rimanenti tre, in favore di altre due società, entrambe amministrate dalla sorella degli indagati.
 
Il gip del Tribunale di Salerno ha disposto il sequestro preventivo dei supermercati ceduti dalla società dei figli a quella materna, ritenendo il liquidatore responsabile del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (articolo 11, Dlgs n. 74/2000). Il Tribunale della libertà ha rigettato la richiesta di riesame presentata dalla madre dell’indagato. La donna ha impugnato in Cassazione l’ordinanza per violazione di legge, affermando che la pretesa erariale non sarebbe stata più sussistente poiché il giudice tributario aveva accolto il ricorso promosso dalla srl dei figli avverso l’avviso di accertamento, riducendo così l’entità e il valore del sequestro, in relazione al minor credito nei confronti dell’erario.
 
La Corte ha dichiarato il ricorso inammissibile, affermando che “il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Cassazione, n. 36346/19)”. Quanto al merito, poi, la Cassazione ha richiamato i principi elaborati con riferimento al reato previsto dall’articolo 11, Dlgs n. 74/2000.
 
Osservazioni
I giudici di legittimità hanno ribadito che:
a) i beni immobili appartenenti a soggetto indagato del delitto di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte, alienati per far venir meno le garanzie di un’efficace riscossione dei tributi da parte dell’erario, sono suscettibili di sequestro preventivo per la successiva confisca ex articolo 240, comma 1, cp, in quanto costituiscono lo strumento per mezzo del quale è stato commesso il reato, a nulla rilevando la loro qualificazione anche come prezzo o profitto di tale delitto (cfr nn. 34798/2009, 3095/2017 e 29980/2019)
b) la condotta del reato consiste nell’alienare simulatamente o nel compiere altri atti fraudolenti sui propri o altrui beni idonei a rendere, in tutto o in parte, inefficace la procedura di riscossione coattiva. Si tratta di un reato di pericolo per la cui configurabilità è sufficiente la semplice idoneità delle condotte rilevanti, previste dal richiamato articolo 11, a pregiudicare l’attività recuperatoria dell’amministrazione finanziaria (cfr Cassazione, n. 13233/2016) ovvero a mettere a repentaglio la realizzazione della pretesa tributaria, anche solo rendendo più difficile una eventuale procedura esecutiva, senza che, quindi, sia necessario che la stessa venga resa non più possibile – quindi, qualsiasi atto o fatto fraudolento intenzionalmente volto a ridurre la capacità patrimoniale del contribuente (cfr Cassazione, n. 39079/13);
c) il profitto di detto reato deve essere individuato nel valore del bene o dei beni idonei a fungere da garanzia nei confronti dell’amministrazione finanziaria che agisca per il recupero delle somme evase e oggetto delle condotte artificiose considerate dalla norma (cfr Cassazione, nn. 33184/2013 e 10214/2015).
 
Dopo aver ribadito tali principi, la Corte si è pronunciata sulla possibilità di escludere la configurazione del reato. Al riguardo ha osservato che, per un verso, a seguito della sentenza non definitiva della Commissione tributaria, l’avviso di accertamento non è stato completamente annullato, ma è stato ridotto l’ammontare della pretesa tributaria. Nella fattispecie esaminata, quindi, permaneva il credito della società in liquidazione nei confronti dell’erario che, azionando la procedura di riscossione coattiva, si sarebbe imbattuto nella sua totale o parziale inefficacia a seguito della simulata alienazione dei quattro rami di azienda.
Per altro verso, la Cassazione ha giudicato irrilevante la riduzione del credito nei confronti dell’erario, proprio perché i rami di azienda, ceduti con lo scopo di rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, costituivano lo strumento utilizzato per commettere il reato, e, quindi, erano suscettibili di confisca (ex articolo 240, comma 1, cp) a nulla rilevando se gli stessi dovessero considerarsi anche prezzo o profitto del reato. Nell’ipotesi in cui l’avviso d’accertamento sia stato successivamente annullato, in tutto o in parte, in autotutela ovvero dal giudice tributario, infatti, non viene meno l’humus del reato da valutare in funzione alla natura dell’illecito che non richiede neppure una previa azione di recupero da parte dell’amministrazione finanziaria (cfr Cassazione, n. 39079/2013).
 
In passato, sulla sussistenza del reato in caso di cessione di azienda, i giudici di piazza Cavour (pronuncia n. 37415/2012) avevano affermato, altresì. l’irrilevanza della disciplina dettata dall’articolo 2560 cc (secondo il quale il cedente l’azienda non è liberato dai debiti rispondendo comunque in solido anche l’acquirente se tali debiti risultano dai libri contabili obbligatori), in quanto la natura “di pericolo” del delitto ex articolo 11, Dlgs n. 74/2000 comporta che comunque, a prescindere dalla possibilità per il Fisco di far valere i propri crediti nei confronti del cessionario, la cessione del ramo d’azienda rende comunque più difficoltosa l’aggressione dei beni del debitore.

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