Non è fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge n. 339 del 2003 (Norme in materia di incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato). Questa, in estrema sintesi, la pronuncia della Consulta, depositata lo scorso 21 novembre, la n. 390, che, decidendo, previa riunione, sulla questione di legittimità costituzionale - sollevata dai tribunali di Napoli e Cuneo - degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339, in relazione agli articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, ha dichiarato inammissibile la questione proposta dai giudici partenopei e non fondata quella dei magistrati piemontesi.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Napoli
Il tribunale partenopeo aveva sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 4 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339.
Nello specifico, l’articolo 1 della legge impugnata prevede che le disposizioni di cui all’articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 – che consentono l’iscrizione dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale agli albi professionali, quando la prestazione lavorativa non sia superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno (part-time ridotto) – “non si applicano all’iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti e i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni”; il successivo articolo 2(1), invece, disciplina la conservazione del rapporto di impiego per i pubblici dipendenti.
Nel caso in esame, un dipendente dell’Avvocatura dello Stato, in possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense, aveva chiesto alla propria Amministrazione - in base al disposto dell’articolo 1, comma 58, della legge n. 662 del 1996 - la trasformazione del proprio rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale, al fine di esercitare la professione di avvocato.
L’Amministrazione negava tale trasformazione, motivando il diniego con il conflitto d’interessi che sarebbe scaturito dalla prosecuzione del rapporto di lavoro con l’Avvocatura e dal contestuale esercizio della professione forense.
Il dipendente, lamentando l’illegittimità del diniego opposto dall’Amministrazione, in quanto - a suo parere - quest’ultima, ai sensi del citato articolo 1, comma 58, avrebbe solo dovuto prendere atto dell’opzione formulata dal ricorrente, chiedeva di dichiarare l’avvenuta trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno con l’Avvocatura in rapporto di lavoro part-time.
L’associazione Adip (Avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale) - costituitasi in qualità di interventore volontario - deduceva che, essendo entrata in vigore, nelle more del giudizio, la legge n. 339 del 2003, ai pubblici dipendenti era nuovamente impedito di iscriversi all'albo degli avvocati, essendo stato reso a essi inapplicabile l’articolo 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge n. 662 del 1996 ed essendo stato, invece, ripristinato il divieto di cui al Rdl 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni.
La stessa associazione aveva, pertanto, sollevato questione di legittimità costituzionale, sotto numerosi profili, degli articoli 1 e 2 della legge n. 339 del 2003, comunque concludendo per il diritto del dipendente a ottenere la trasformazione in rapporto part-time del proprio rapporto di lavoro a tempo pieno con l’Avvocatura dello Stato.
I giudici hanno ritenuto non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale in quanto la norma incriminata violerebbe:
- l’articolo 3 della Costituzione, stante l’introduzione di una serie di disparità di trattamento sia rispetto a pubblici dipendenti che svolgono attività professionali diverse da quella di avvocato, sia rispetto a pubblici dipendenti in servizio presso amministrazioni statali diverse dall’Avvocatura dello Stato. Sotto il primo profilo, infatti, mentre l’esercizio della professione di avvocato è preclusa ai pubblici dipendenti con rapporto di lavoro part-time, analoga preclusione non esiste per i pubblici dipendenti abilitati all’esercizio di altre professioni, come, ad esempio, quella di commercialista o quella di ingegnere.
Sotto il secondo profilo, invece, l’articolo 3 del Rdl n. 1578 del 1933 (richiamato dall’impugnato articolo 1 della legge n. 339 del 2003) - nel ritenere incompatibile la professione di avvocato con quella di pubblico dipendente - fa eccezione per “i professori degli istituti secondari dello Stato”.
Questi ultimi, pertanto, pur essendo dipendenti statali (al pari del ricorrente) non subiscono alcuna limitazione ai fini dell’esercizio della professione forense, non essendo neanche richiesta la trasformazione del loro rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro part-time - l’articolo 4 della Costituzione, poiché la discrezionalità del legislatore nello stabilire i modi e i tempi di attuazione del diritto al lavoro sarebbe stata, nella specie, esercitata in modo irragionevole nella misura in cui le disposizioni soggette a censura sono intese a impedire, ovvero a limitare, l’accesso di tutti i soggetti, in possesso dei prescritti requisiti, alla libera professione, nell’ambito di un mercato concorrenziale.
La questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Cuneo
Il tribunale di Cuneo - nel corso di un giudizio concernente una fattispecie analoga a quella sottoposta ai giudici campani - ha ritenuto la questione di legittimità costituzionale della legge n. 339 del 2003 non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione.
Quanto alla violazione dell’articolo 3 della Costituzione, il giudice rimettente ha rilevato che “nel quadro legislativo attuale, in cui vige il principio generale secondo cui il pubblico dipendente in regime di part time ridotto può esercitare la libera professione per la quale abbia conseguito la richiesta abilitazione, il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati, fatto rivivere dall’art. 1 della legge n. 339 del 2003, rappresenta una lex specialis, dal momento che analogo divieto non vale con riferimento a tutte le altre libere professioni (medici, ingegneri, architetti, commercialisti, geometri, ragionieri, ecc.). Peraltro, la normativa censurata non trova giustificazione né in principi di rango costituzionale, né in ragioni che rendano effettivamente diversa la situazione del pubblico dipendente che esercita la professione di avvocato da quella del pubblico dipendente che svolge qualsiasi altra “professione liberale”, né in esigenze proprie della pubblica amministrazione”.
Non sarebbe sufficiente, peraltro, la circostanza che il divieto di esercizio della professione di avvocato, da parte del pubblico dipendente in regime di part-time ridotto, avrebbe come finalità quella di assicurare l’indipendenza del difensore e la tutela del diritto di difesa, garantito dall’articolo 24 della Costituzione.
Invero, l’idoneità allo svolgimento della professione di avvocato è attestata, per quanto riguarda il possesso delle capacità e delle cognizioni tecniche, dal superamento dell’esame di Stato che l’aspirante deve obbligatoriamente sostenere per conseguire l’abilitazione all’esercizio della professione. Quanto, poi, alla fedeltà al mandato conferito dal cliente, essa non appare affatto pregiudicata dal rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, in quanto, nell’esercizio della professione di avvocato, il pubblico dipendente non è soggetto agli ordini e alla direttive di un datore di lavoro, ma esclusivamente alle norme deontologiche valide per tutti gli iscritti all’ordine (norme la cui precisa osservanza è garantita da sanzioni disciplinari nonché da sanzioni penali).
In ogni caso, la potenziale commistione di interessi (pubblici e privati) varrebbe per gli avvocati ma anche per altre “libere” professioni (si pensi all’esercizio della professione di architetto o di geometra da parte di un impiegato in servizio presso un ufficio tecnico comunale), con riferimento alle quali, tuttavia, non è previsto analogo divieto.
Del resto, il timore che il prestigio del difensore possa basarsi, anziché sulle qualità personali, sulle funzioni pubbliche ricoperte non ha impedito al legislatore di sancire la compatibilità dell’esercizio della professione di avvocato con l’attività di professore di università o istituti secondari statali, o con incarichi quali quelli di giudice di pace, giudice tributario, giudice onorario di tribunale e vice procuratore onorario.
Quanto, poi, all’esigenza di garantire l’imparzialità e il buon andamento dell’amministrazione, la normativa vigente già prevede – continua il rimettente – una serie di limiti che appare idonea a salvaguardare l’anzidetta esigenza, come ha messo in luce la Corte costituzionale con la sentenza n. 189 del 2001, che ha dichiarato non fondate tutte le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 1, commi 56 e 56-bis, della legge n. 662 del 1996, con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 97 e 98 della Costituzione.
La disparità di trattamento creata dal denunciato articolo 1 della legge n. 339 del 2003 risulta ancor più accentuata, sempre secondo il rimettente, ove si ponga mente alla normativa comunitaria.
L’articolo 2 della direttiva 98/5/Ce stabilisce, infatti, che “gli avvocati hanno diritto di esercitare stabilmente le attività di avvocato in tutti gli Stati membri con il proprio titolo professionale di origine”. Il successivo articolo 5, comma 1, dispone che “l’avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine svolge le stesse attività professionali dell’avvocato che esercita con il corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante”. La stessa direttiva prevede, inoltre, la possibilità di costituire società tra avvocati e società con avvocati di altri Stati membri.
Dunque, il dipendente pubblico italiano, anche se in regime di part-time ridotto e anche se in possesso dell’abilitazione professionale, non può, in base alla legge n. 339 del 2003, iscriversi agli albi degli avvocati italiani e, consequenzialmente, non può esercitare la professione di avvocato neppure negli altri Stati membri.
L’ostacolo frapposto dalla norma censurata allo svolgimento dell’attività professionale per la quale si è conseguita la prescritta abilitazione sarebbe, inoltre, in contrasto con l’articolo 4 della Costituzione, che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, e con l’articolo 35 della Costituzione, che tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni.
Appare, infine, violato anche l’articolo 41 della Costituzione, in quanto il divieto posto dall’articolo 1 della legge n. 339 del 2003 all’esercizio della professione di avvocato da parte dei pubblici dipendenti non può dirsi dettato da “fini sociali”, laddove, come ha evidenziato l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nel parere n. 48/01, e come ha affermato anche la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 189 del 2001, le disposizioni della legge n. 662 del 1996, delle quali la norma impugnata esclude l’applicazione con riguardo alla sola professione forense, “sono intese a favorire l’accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioè ad un ambito del mercato del lavoro che è naturalmente concorrenziale”.
Motivazioni a base della pronuncia
Con la sentenza in commento, la Consulta ha riconosciuto la legittimità dell’articolo 1 della legge n. 339 del 2003, con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dichiarando infondata la relativa questione sollevata dal tribunale di Cuneo.
Si precisa che, con riguardo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal tribunale di Napoli, la Corte ne ha dichiarato l’inammissibilità, sul presupposto dell’irrilevanza dalle sorti della denunciata legge n. 339 del 2003 ai fini del giudizio a quo, vertente sull’applicazione della diversa normativa di cui all’articolo 58 della legge n. 662 del 1996. Infatti, come già detto, la controversia era scaturita dal rifiuto dell’Avvocatura dello Stato di concedere al proprio dipendente il part-time per l’esercizio della professione di avvocato, motivato dal riscontrato “conflitto di interessi con la specifica attività di servizio svolta”, ai sensi del citato articolo 58 delle legge n. 662 del 1996.
Hanno osservato al riguardo i giudici che “…tale norma – non incisa, in quanto tale, dalla legge censurata – comporta di per sé il rigetto della domanda, ove il diniego dell’Amministrazione sia ritenuto legittimo, e conseguentemente preclude che venga in rilievo il divieto di iscrizione all’albo degli avvocati introdotto dalla legge n. 339 del 2003”.
Con specifico riguardo, dunque, alla questione sollevata dal tribunale di Cuneo, i giudici ne hanno affermato l’infondatezza, sulla base delle motivazioni che si va a illustrare.
- Con riferimento agli articoli 3, 4 e 35 Costituzione
A orientare la decisione dei giudici costituzionali, c’è la decisiva considerazione circa la non manifesta irragionevolezza della scelta del legislatore di escludere dal novero delle attività alle quali possono accedere i pubblici dipendenti (a part-time cosiddetto ridotto) solo la professione forense. Infatti, ritiene il Supremo organo giudicante che l’osservazione secondo cui non sarebbero esclusivi della professione forense i possibili inconvenienti derivanti dalla “commistione” tra pubblico impiego e libera professione, non si presta a connotare in termini di irragionevolezza l’opzione del legislatore, ben potendosi ritenere che lo stesso abbia valutato tali inconvenienti maggiormente pericolosi e frequenti nei casi in cui la “commistione” riguardi la professione forense.
Dunque, la decisione del legislatore di “penalizzare” unicamente la professione di avvocato è frutto di una scelta discrezionale, che potrebbe dare adito solo a valutazioni in termini di opportunità (come tali, insindacabili), e non rileva sotto il profilo della manifesta irragionevolezza.
D’altra parte, la Corte osserva anche che l’articolo 3 del Rdl 27 novembre 1933, n. 1578, recante “Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore”, sancisce espressamente l’incompatibilità della professione forense con rapporti lavorativi di natura subordinata.
A norma del citato articolo, infatti, la professione di avvocato è incompatibile con qualsiasi “impiego retribuito, anche se consistente nella prestazione di opera di assistenza o consulenza legale, che non abbia carattere scientifico o letterario”.
La prevista incompatibilità è peculiare della professione forense e contraddistingue quest’ultima dalle altre attività il cui esercizio è condizionato all’iscrizione in un albo. Pertanto, secondo i giudici, il divieto ripristinato dalla legge n. 339 del 2003 apparirebbe del tutto in linea con il sopra richiamato sistema di incompatibilità, la cui coerenza non apparirebbe minata dalle pur contemplate eccezioni. E’ il caso della deroga prevista in favore dell’attività di docente, laddove l’eccezione deve essere considerata alla luce del principio costituzionale della libertà dell’insegnamento (articolo 33 Costituzione), dal quale i giudici fanno discendere che “il rapporto di impiego (ed il vincolo di subordinazione da esso derivante), come non può incidere sull’insegnamento (che costituisce la prestazione lavorativa), così, ed a fortiori, non può incidere sulla libertà richiesta dall’esercizio della professione forense”.
La Corte costituzionale ha ritenuto, altresì, che non possano trarsi elementi a sostegno dell’incostituzionalità della legge n. 339 del 2003 dalle motivazioni sottese alla precedente pronuncia n. 189 del 2001, con cui la stessa Corte aveva dichiarato costituzionalmente legittimo l’articolo 1, commi 56 e 56-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante una disciplina speculare rispetto a quella censurata nell’odierno giudizio.
Sul punto, i giudici evidenziano “che la non irragionevolezza di una disciplina non esclude la non irragionevolezza di una opposta disciplina e che il legislatore conserva integro – con il solo limite, appunto, della non manifesta irragionevolezza – il potere di disciplinare diversamente la medesima materia che abbia superato, in precedenza, il vaglio di legittimità costituzionale”.
A ogni modo, la Corte osserva che mentre in un caso (cioè, nel giudizio conclusosi con la citata sentenza n. 189 del 2001) si trattava dell’elisione del vincolo di esclusività della prestazione in favore del datore di lavoro pubblico, con valutazione in termini di ragionevolezza e logicità dei limiti posti dal legislatore per evitare eventuali conflitti di interessi, in un altro (l’odierno giudizio di legittimità) è in discussione la scelta del legislatore di reintrodurre per i dipendenti pubblici in part-time ridotto il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati.
Inoltre, a parere dei giudici, la disciplina prevista dal citato articolo 1 della legge n. 399 del 2003 non sarebbe idonea a determinare - alla luce della normativa comunitaria - una disparità di trattamento tra quanti abbiano conseguito il titolo di avvocato in Italia e gli avvocati di altri Stati membri della Comunità europea.
Infatti, l’articolo 8 della direttiva 98/5/Ce ammette che un avvocato iscritto nello Stato membro ospitante con il titolo professionale d’origine svolga attività lavorativa di natura subordinata presso un ente pubblico o privato, solo in quanto lo Stato membro ospitante riservi il medesimo trattamento agli avvocati iscritti con il titolo professionale che esso rilascia. Il principio sopra affermato è stato peraltro recepito nell’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo n. 96 del 2001 (di attuazione delle direttiva comunitaria), il quale stabilisce che la normativa in materia di incompatibilità riguardanti l’esercizio della professione di avvocato si estende anche agli avvocati di altri Stati membri, siano essi “stabiliti” o “integrati” in Italia.
- Con riferimento all’articolo 41 della Costituzione
In ordine a tale profilo, la Corte ha respinto la censura, evidenziando come la stessa sia “fondata su un argomento – svolto dalla citata sentenza n. 189 del 2001 e riprodotto dal parere del 6 dicembre 2001 dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato – addotto per negare che la disciplina del 1996 fosse contrastante (come anche allora lamentato) con l’art. 4 Cost.; e che quell’argomento non sia idoneo a far ritenere sussistente la violazione del precetto di cui all’art. 41 Cost. è confermato dal rilievo che, subito dopo, la predetta sentenza (al n. 10 del Considerato in diritto) richiamava il d.lgs. n. 96 del 2001, attuativo della direttiva 98/5/CE, del quale si è chiarita l’'irrilevanza ai fini delle questioni qui esaminate”.
NOTE
1. L'articolo 2 della legge n. 339 del 2003 così recita: "1. I pubblici dipendenti che hanno ottenuto l'iscrizione all'albo degli avvocati successivamente alla data di entrata in vigore della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e risultano ancora iscritti, possono optare per il mantenimento del rapporto d'impiego, dandone comunicazione al consiglio dell'ordine presso il quale risultano iscritti, entro trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. In mancanza di comunicazione entro il termine previsto, i consigli degli ordini degli avvocati provvedono alla cancellazione di ufficio dell'iscritto al proprio albo.
2. Il pubblico dipendente, nell'ipotesi di cui al comma 1, ha diritto ad essere reintegrato nel rapporto di lavoro a tempo pieno.
3. Entro lo stesso termine di trentasei mesi di cui al comma 1, il pubblico dipendente può optare per la cessazione del rapporto di impiego e conseguentemente mantenere l'iscrizione all'albo degli avvocati.
4. Il dipendente pubblico part-time che ha esercitato l'opzione per la professione forense ai sensi della presente legge conserva per cinque anni il diritto alla riammissione in servizio a tempo pieno entro tre mesi dalla richiesta, purché non in soprannumero, nella qualifica ricoperta al momento dell'opzione presso l'Amministrazione di appartenenza. In tal caso l'anzianità resta sospesa per tutto il periodo di cessazione dal servizio e ricomincia a decorrere dalla data di riammissione".