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Giurisprudenza

No al rimborso per la mostra di ori,
le spese sono di rappresentanza

Quelle di pubblicità hanno una diretta finalità promozionale dei prodotti e servizi commercializzati, quelle analizzate dalla Cassazione sono state sostenute solo per accrescere il prestigio dell’impresa

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Non spetta il rimborso d’imposta chiesto dalla società svizzera, per la somma versata a favore della consociata italiana, quale contributo alla realizzazione di un grande evento mondano presso il palazzo Ducale di Venezia, L’esposizione di gioielli di altissima oreficeria per i clienti più affezionati e facoltosi, infatti, rientra tra le finalità delle spese volte ad accrescere l’immagine del marchio della società. Lo ha chiarito la Cassazione, con l’ordinanza n. 14049 del 22 maggio scorso.

I fatti
Una società di diritto svizzero, non residente, ha impugnato il provvedimento di diniego di rimborso dell’Iva corrisposta a fronte della somma versata alla Spa di diritto italiano, quale contributo per le spese di organizzazione di un grande evento mondano (presentazione di alta gioielleria), curato da quest'ultima e tenutosi a Venezia dal 14 al 16 settembre 2006.

L’ufficio ha ritenuto il rimborso (ex articolo 38-ter, vigente ratione temporis) non spettante, non essendo detraibile l’imposta (ex articolo 19-bis lettera h), Dpr n. 633/1972, vigente ratione temporis) relativa a tale contributo, trattandosi di spese di rappresentanza.
Mentre, per la società, l’evento riguardava la presentazione e la conseguente promozione di prodotti di alta gioielleria ai più prestigiosi clienti del gruppo di tutto il mondo e le spese sostenute erano di pubblicità, diversamente l’ufficio ha ritenuto che il suddetto evento fosse stato organizzato con lo scopo di mantenere e accrescere il prestigio della società, migliorandone l’immagine senza dar luogo ad aspettative di incremento delle vendite e, quindi, le spese sostenute erano di rappresentanza.

A fondamento di tale assunto, l’ufficio, sulla base della documentazione disponibile, rilevava i seguenti elementi:
1) dalla fattura del 31 dicembre 2006, di riaddebito alla società svizzera, i costi di allestimento dell’evento erano pari a circa 1.320.000 euro
2) dall’esame delle fatture emesse da una società specializzata in restauri architettonici, l’esecuzione di opere di restauro della Scala d’oro del Palazzo Ducale di Venezia erano continuate anche dopo lo svolgimento dell’evento
3) dal dettaglio delle spese alberghiere sostenute presso i migliori hotel della città lagunare, risultava che ai clienti, per accrescere il prestigio della società presso di essi, era stato concesso di fruire delle migliori opzioni possibili
4) da specifiche fatture, i destinatari dell’evento, in realtà, non erano clienti ma evidentemente rivenditori del gruppo nel mondo (di Singapore, Ginevra eccetera)
5) dalle dichiarazioni della società, relative all’attività di commercializzazione, risultava utilizzato il sistema di consignment stock, e cioè a seguito di dimostrazione di interesse da parte dell’acquirente, il gioiello prescelto veniva poi venduto direttamente dalla società retailer che acquista dalla società svizzera
6)  dall’esame della rassegna stampa risalente all’epoca dei fatti, l’intento della maison consisteva “non solo nel promuovere il proprio marchio, ma anche impegnarsi sul fronte culturale e artistico” 7) dalla scaletta del programma, redatto insieme a un’altra famosa maison, era evidente la presentazione, ai migliori clienti mondiali (160 la prima sera, 100 la seconda), del progetto di restauro della Scala d’oro del Palazzo Ducale.

In entrambi i gradi di merito, i giudici hanno ritenuto spettante il rimborso, nonostante la società, che ne era onerata, non avesse dimostrato che gli asseriti 3 acquisti di gioielli fossero stati effettuati da clienti presenti all’evento e nonostante le perplessità dell’ufficio sull’applicabilità del meccanismo di vendita, risultando difficile immaginare di depositare i beni presso un proprio locale, visto il loro altissimo valore.
In disparte il dettaglio delle vicende processuali (la Cassazione è stata adita la seconda volta, dopo il rinvio), tuttavia, il giudice di secondo grado, interpellato in sede di rinvio, ha ritenuto legittimo il diniego, richiamando il consolidato orientamento di legittimità sulla distinzione tra  spese di pubblicità e di rappresentanza, e affermando che la vendita dei tre gioielli era rimasta mera allegazione difensiva e che l’eco della destinazione di una parte del contributo (versato dalla Spa) al  restauro di un’opera d’arte era svincolata dall’aspettativa di ritorno commerciale.
 
La società svizzera ha proposto ricorso per cassazione, lamentando, tra l’altro, violazione e falsa applicazione degli articoli 19-bis 1), comma 1, lettera h), Dpr n. 633/1972, e 108, comma 2 secondo e terzo periodo, Tuir. A suo parere, il giudice del rinvio aveva mal governato la normativa in tema di spese di pubblicità e di spese di rappresentanza, mancando sia di valutare il contesto complessivo nel quale era reclamizzato il prodotto venduto (e con ciò non ponendo la giusta attenzione alla sostanza e al fine intrinseco della spesa), sia di compiere una adeguata analisi funzionale delle spese.

La Corte ha giudicato infondato il motivo e ha richiamato i criteri che devono guidare l’interprete nella attribuzione a un costo della sua qualifica, chiarendo (cfr Cassazione, n. 10440/2021) “che il criterio discretivo tra le spese di rappresentanza e spese di pubblicità va individuato negli obiettivi perseguiti, atteso che le prime sono sostenute per accrescere il prestigio della impresa senza dar luogo ad una aspettativa di incremento delle vendite, se non via mediata e indiretta attraverso il conseguente aumento della sua notorietà e immagine, mentre le seconde hanno una diretta finalità promozionale di prodotti e servizi commercializzati, mediante l'informazione ai consumatori circa l'esistenza di tali beni e servizi, unitamente all'evidenziazione e all'esaltazione delle loro caratteristiche e dell'idoneità a soddisfarne i bisogni, in modo da incrementare le relative vendite” (Cassazione, ordinanza n. 14049/2023).

Osservazioni
I giudici di legittimità hanno ribadito che, ai fini della distinzione tra le due spese, ciò che rileva è la sussistenza o meno di una diretta “aspettativa di ritorno commerciale” (cfr Cassazione, nn. 10914/2015 e 5720/2016). Il criterio discretivo tra spese di rappresentanza e di pubblicità va individuato, tra l’altro, nella diversità, anche strategica, degli obiettivi: costituiscono spese di rappresentanza i costi sostenuti per accrescere il prestigio e l'immagine della società e per potenziarne le possibilità di sviluppo, senza dar luogo a un’aspettativa di incremento delle vendite, mentre sono spese di pubblicità o propaganda quelle erogate per la realizzazione di iniziative tendenti, prevalentemente anche se non esclusivamente, alla pubblicizzazione di prodotti, marchi e servizi, o comunque al fine diretto di incrementare le vendite, sicché è necessaria una rigorosa verifica in fatto della effettiva finalità delle spese (cfr Cassazione, n. 16812/2014). Di conseguenza, le spese di rappresentanza sono in rapporto diretto con l’immagine dell’impresa, il cui miglioramento presso clienti e potenziali clienti è risultato perseguito e atteso quale obiettivo da realizzarsi; le spese di pubblicità si collocano in rapporto diretto con l’incremento delle vendite, che è risultato perseguito e atteso quale obiettivo e fine del loro sostenimento.

Al riguardo, per ulteriore conferma della correttezza di tale distinzione, i giudici di legittimità hanno richiamato le precedenti pronunce nn. 8121 e 8123 del 2016, secondo le quali  i costi sostenuti per la cessione gratuita a Vip dei capi d'abbigliamento griffati di produzione della contribuente, nota maison di moda, senza alcun obbligo giuridico di indossarli in manifestazioni pubbliche, integrano spese di rappresentanza, solo parzialmente deducibili e non di pubblicità o propaganda, interamente deducibili, proprio poiché manca in questo caso un collegamento obiettivo e immediato con la promozione di un prodotto o di una produzione e con l'aspettativa diretta di un maggior ricavo.
In particolare, per le spese oggetto di contratti di sponsorizzazione, il sistema tributario prevede che, in mancanza di alcun nesso tra l'attività sponsorizzata e quella posta in essere dallo sponsor, le relative spese non possono essere considerate di pubblicità, e come tali integralmente deducibili, ma devono ritenersi spese di rappresentanza soggette ai limiti previsti dall’articolo 108 del Tuir e dalle disposizioni secondarie attuative (cfr Cassazione, n. 5720/2016).

Tali considerazioni trovano recente conferma anche sul versante unionale, per la detraibilità dell’Iva. Un soggetto passivo può detrarre l’Iva assolta a monte per servizi pubblicitari se tale prestazione di servizi costituisce un'operazione soggetta a Iva, e se presenti un nesso diretto e immediato con una o più operazioni imponibili a valle o con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo, a titolo di sue spese generali (Cg Ue, C-334/20, pronuncia del 25 novembre 2021).

Dopo aver manifestato il proprio orientamento sul criterio discretivo tra le due tipologie di spesa, la Cassazione ha posto in evidenza che, nel caso concreto, in mancanza di prova da parte della società svizzera, difettava la dimostrazione di un nesso immediato e diretto tra il costo e l’attività promozionale. La contribuente, infatti, non aveva dimostrato che i gioielli dell’evento fossero stati oggetto di attenzione, anche solo nella forma di manifestazione di interesse che derivava dal sottoporli a opzione di acquisto, almeno da alcuni dei facoltosi clienti invitati. A questi ultimi era stato destinato il trattamento di benefits di esclusiva mondiale: essere ospiti nei più lussuosi hotel della città lagunare e nella meravigliosa sede di Palazzo Ducale a Venezia per assistere a una esposizione evidentemente di altissimo pregio.

Sempre sul piano probatorio, sia la circostanza “che una parte delle somme pagate dalla S.p.A.” (e al cui esborso aveva contribuito la società svizzera) fosse destinata al restauro della “Scala d’oro”, sia la notizia che tale contributo avesse avuto ampia diffusione sugli organi di stampa erano indici dell’ottenimento da parte della contribuente proprio di un ritorno in termini di valorizzazione della sua immagine.

Infine, la Cassazione ha collegato la strategia sottostante alla realizzazione delle operazioni effettuate all’articolo 120, Dlgs n. 42/2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) secondo il quale “è sponsorizzazione di beni culturali ogni contributo, anche in beni o servizi, erogato per la progettazione o l'attuazione di iniziative in ordine alla tutela ovvero alla valorizzazione del patrimonio culturale, con lo scopo di promuovere il nome, il marchio, l'immagine, l'attività o il prodotto dell'attività del soggetto erogante”, con la precisazione che “la promozione di cui al comma 1 avviene attraverso l'associazione del nome, del marchio, dell'immagine, dell'attività o del prodotto all'iniziativa oggetto del contributo, in forme compatibili con il carattere artistico o storico, l'aspetto e il decoro del bene culturale da tutelare o valorizzare, da stabilirsi con il contratto di sponsorizzazione”.
La Corte suprema ha ricondotto, quindi, agli scopi della sponsorizzazione, il restauro della Scala d’oro universalmente nota di Palazzo Ducale di Venezia, la promozione dell’immagine dell’impresa e del suo prodotto, confermando che sia l’una sia l’altra attività, pur avendo ricadute benefiche sull’impresa, restano autonome e distinte.

Nel caso esaminato, quindi, l’associazione della Scala d’oro – in forza delle costose e importanti operazioni di restauro – è stata “collegata” con il marchio della società svizzera, ma non con i prodotti della stessa: in altre parole, i potenziali clienti della società hanno ottenuto da tale operazione la percezione della contribuente come soggetto mecenate, derivando direttamente da tale apprezzamento solo una migliore e più favorevole percezione della sua immagine e solo indirettamente una ricaduta in termini di (potenziali) incrementi delle vendite di gioielli esclusivi.

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