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Giurisprudenza

No alla deduzione per uso promiscuo
se il professionista ha un altro studio

L’agevolazione prevedeva, nella versione vigente all’epoca dei fatti, uno sconto pari al 50% della rendita catastale oppure del canone in caso di acquisizione mediante locazione anche finanziaria

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Nella pronuncia n. 31621 del 4 dicembre 2019, la Corte di cassazione disconosce la spettanza della deduzione dei costi per gli immobili a uso promiscuo se il contribuente dispone nel Comune di altro immobile adibito esclusivamente all’esercizio di arte o professione, a prescindere dal fatto che alcuni locali della stessa unità siano locati ad altri professionisti.

L’iter giudiziario e la decisione
Il contribuente produceva ricorso avverso l’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle entrate rettificava il reddito con la ripresa di costi illegittimamente dedotti non documentati e non ritenuti inerenti.
Sia dinanzi alla competente Ctp sia in sede di giudizio di appello venivano respinte le obiezioni sollevate dal contribuente. In particolare la Ctr competente confermava la legittimità della pretesa impositiva assumendo che la Ctp avesse correttamente interpretato l’articolo 54 del Dpr n. 917/1986 ritenendo che la circostanza che il contribuente disponesse di un immobile in parte locato ad altri professionisti e in parte adibito a uso esclusivo della professione, precludesse la possibilità di dedurre il 50% della rendita o del canone di locazione dell’immobile adibito a uso promiscuo (abitazione e ufficio).

Alle medesime conclusioni perviene la Corte di legittimità sulla base delle seguenti argomentazioni.
Sulla base dell’articolo 42 del Dpr n. 600/1973 vigente ratione temporis, “l’avviso di accertamento deve recare l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute d’acconto e dei crediti di imposta, e deve essere motivato in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che lo hanno determinato in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni di cui ai precedenti articoli che sono state applicate con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie e con la specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici o delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni o detrazioni”.
La Corte osserva che nell’ambito dei principi generali che disciplinano l’onere della prova vige il criterio per cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo la prova di elementi rivelatori dell’esistenza di un maggiore imponibile gravando invece sul contribuente l’onere di provare l’esistenza di fatti che danno luogo a oneri e costi deducibili e il requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o di impresa svolta.
Il rispetto del principio di distribuzione dell’onere della prova, come disciplinato dall’articolo 2697 cc, impone al giudice di accertare se la pretesa dedotta in giudizio derivi dall’attribuzione al contribuente di maggiori entrate ovvero dal disconoscimento di costi o oneri deducibili dichiarati dal contribuente stesso, poiché solo l’esatta individuazione della parte tenuta a fornire la prova consente al giudice di attribuire le conseguenze giuridiche derivanti dalla accertata inosservanza di tale onere.

Detto ciò, nella controversia in esame spettava al contribuente dimostrare l’inerenza delle spese portate in deduzione dalla base imponibile. La Ctr ha evidenziato che l’Agenzia delle entrate aveva recuperato a tassazione i costi sulla base di addebiti noti al contribuente esaminando la documentazione prodotta dalla parte in risposta all’invito notificatole ed escludendo la deduzione di spese comprovate da scontrini privi dei requisiti di legge.
In particolare poi, la Corte osserva che, in relazione al recupero della deduzione del 50% della rendita dell’immobile a uso promiscuo, l’articolo 54, comma 3, del Tuir, nella versione vigente ratione temporis, prevedeva che per gli immobili utilizzati promiscuamente è deducibile una somma pari al 50% della rendita ovvero, in caso di immobili acquisiti mediante locazione anche finanziaria, un importo pari al 50% del canone, sempre che il contribuente non disponga nel medesimo Comune di altra unità adibita esclusivamente nell’esercizio dell’arte o della professione. A tal proposito, nel caso in esame, l’esclusione della deduzione disposta dall’Agenzia, si fondava proprio sul fatto che il contribuente aveva a disposizione un altro immobile, nello stesso Comune, adibito esclusivamente a uso professionale e non abitativo a nulla rilevando, in senso contrario, che alcuni locali fossero locati ad altri professionisti.

La lettura fornita dalla Corte suprema appare altresì coerente con il tenore letterale della norma che contrappone l’avverbio “esclusivamente” all’avverbio “promiscuamente”, riconoscendo la spettanza della deduzione nei soli casi in cui il professionista utilizzi un immobile promiscuamente per l’esercizio dell’attività di impresa e per il proprio uso personale o familiare subordinandola, tuttavia, alla condizione che egli non disponga di altro immobile nello stesso Comune ove svolga esclusivamente l’attività professionale.

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