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Giurisprudenza

Non basta aver transatto col Fisco,
il sequestro dei beni scatta sempre

In caso di evasione, via libera alla misura cautelare, anche nell’ipotesi in cui sia stato firmato un accordo con l’amministrazione finanziaria nell’ambito di un concordato preventivo

immagine di un cancello chiuso con catena e lucchetto

La transazione fiscale conclusa con l’ufficio si configura come un impegno ad adempiere, ma non elimina il pericolo di una dispersione dei beni, costituendo l’inadempimento un’opzione non auspicabile, ma certamente possibile; gli effetti del sequestro preventivo non vengono meno in caso di accordo tra amministrazione finanziaria e indagato.

A stabilirlo, la Corte di cassazione con la pronuncia n. 18034 del 2 maggio 2019, con la quale i giudici di legittimità hanno respinto il ricorso di un imprenditore secondo il quale, dopo il concordato preventivo con l’Agenzia delle entrate, non sussistevano più i presupposti del sequestro dei beni aziendali.

La vicenda processuale
Nei confronti del legale rappresentante di una Spa accusato di evasione fiscale veniva emesso un provvedimento di sequestro preventivo dei beni ex articolo 321 cpp; successivamente, l’imprenditore siglava una transazione con il Fisco nell’ambito di un concordato preventivo e contestava il provvedimento cautelare emesso dal Gip, deducendo che, dopo l’accordo stipulato con le Entrate, non sussistevano più i presupposti del sequestro dei beni aziendali.
Il Tribunale del riesame confermava con ordinanza la sussistenza dei presupposti legali (fumus commissi delicti e periculum in mora) in relazione al provvedimento di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari, e finalizzato alla confisca diretta nei confronti dei beni aziendali.

Contro l’ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore della società.
In primo luogo, nell’atto di impugnazione si eccepisce la genericità del provvedimento cautelare, che difetterebbe di un’adeguata motivazione sull’effettiva sussistenza del fumus commissi delicti; né il pubblico ministero né il gip avrebbero, peraltro, valutato e motivato circa l’esistenza della procedura di concordato preventivo nel cui ambito era stata conclusa una transazione con l’Agenzia delle entrate per il pagamento dei debiti tributari, circostanze che escluderebbero la ravvisabilità del reato contestato.
In secundis, l’imprenditore lamenta violazione di legge in relazione al periculum in mora poiché, a suo avviso, il giudice del riesame avrebbe errato nel ritenere sussistente questo requisito; nel caso di specie – asserisce il contribuente – l’omologazione del concordato preventivo da parte del tribunale e la relativa transazione fiscale avrebbero fatto venir meno il rischio di dispersione dei beni e, di conseguenza, la configurabilità di un periculum concreto e attuale come richiesto dalla norma.

La decisione della Cassazione
Il ricorso è stato ritenuto infondato.
I giudici di legittimità, confermando la statuizione del tribunale del riesame, precisano che il sequestro preventivo funzionale alla confisca del profitto dei reati tributari, prevista dal Dlgs 74/2000, articolo 12-bis, prevale sui diritti di credito vantati sul medesimo bene per effetto dell’ammissione al concordato preventivo, attesa l’obbligatorietà della misura ablatoria alla cui salvaguardia è finalizzato il sequestro.

Nella valutazione del fumus commissi delicti, quale presupposto del sequestro preventivo, il giudice è tenuto a verificare la sussistenza di un concreto quadro indiziario; difatti, nel caso in esame, la sussistenza del predetto requisito, in base a quanto argomentato prima dal Pm e poi dal Gip, è emerso in maniera palese dalla documentazione prodotta, costituita da dichiarazioni e certificazioni da cui risultava il mancato versamento delle ritenute certificate nei termini di legge in relazione ai periodi d’imposta considerati.
Quanto alla censura relativa alla configurabilità del periculum in mora, la Corte precisa che la transazione conclusa dalla società non elimina di per sé il pericolo di una dispersione dei beni sottoposti al vincolo cautelare, poiché l’inadempimento continua a costituire un’opzione possibile per quanto non auspicabile.

I supremi giudici evidenziano come il sequestro fosse stato disposto sul patrimonio della società proprio con finalità impeditive, ex articolo 321 cpp, comma 1, ovvero per rispondere all’esigenza di impedire qualsiasi movimentazione di denaro ovvero l’esecuzione di operazioni simulate che potessero comportare la dispersione del patrimonio della società o del suo legale rappresentante.
In merito alla compatibilità tra procedure concorsuali, nel caso di specie concordato preventivo e misura cautelare reale, la giurisprudenza di legittimità ha escluso che gli effetti del sequestro preventivo vengano meno qualora sia stato perfezionato, in seno alle suddette procedure, un accordo tra l’indagato-contribuente e l’amministrazione finanziaria; occorrerà semmai operare una rideterminazione del quantum sequestrato in una misura corrispondente alle somme versate all’erario, così da ovviare il rischio di una duplicazione della sanzione (ex plurimis, Cassazione, 4097/2016).

Ad avviso dei giudici, il Tribunale del riesame ha negato correttamente l’esistenza di un automatismo tra la procedura conservativa di carattere pubblicistico e l’assenza del periculum in mora; la transazione fiscale conclusa con l’Agenzia delle entrate si configura certamente come un impegno ad adempiere, ma, di per sé, non elimina in radice il pericolo di una dispersione dei beni, costituendo l’inadempimento una opzione non auspicabile, ma certamente possibile.
Il ricorso è stato dunque rigettato, con conseguente condanna del ricorrente, ex articolo 616 cpp, al pagamento delle spese processuali.

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