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Giurisprudenza

Non basta la buona fede per esimere
l’importatore dal pagamento dei dazi

Non rientra tra gli “errori attivi” delle Autorità doganali, necessari a “scagionare” il contribuente, quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore

Con la sentenza in rassegna (n. 1305/2018), la Cassazione si è pronunciata in merito alla legittimità di un avviso di rettifica di accertamento doganale, con il quale – riconosciuta l’origine cinese di taluni prodotti importati – si applicava un dazio antidumping del 58,6% e, a tale avviso, seguiva un precedente avviso di rettifica, con il quale era stata revocata l’origine della merce da “Filippine preferenziale” a “Filippine non preferenziale”, elevando il dazio dello 0% al 3,7%; ciò, in quanto era risultato che il certificato di origine (“Form A”) rilasciato dal paese esportatore era stato ottenuto dietro presentazione di documentazione ingannevole, volta a fare apparire che i prodotti potessero beneficiare del trattamento tariffario preferenziale.
L’Amministrazione aveva in seguito ricevuto la relazione dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf), nella quale si indicava l’origine cinese della merce, da cui ne è derivata l’applicazione del dazio antidumping.
 
Secondo la sentenza di appello impugnata, favorevole alla società importatrice, la Dogana sarebbe stata a conoscenza di tutti gli elementi relativi all’importazione già nel momento in cui aveva operata la prima rettifica, per cui già da allora avrebbe dovuto contestare l’origine cinese e pretendere il dazio antidumping e il non averlo fatto precludeva all’Amministrazione il potere di operare l’integrazione del precedente avviso di rettifica.
Per i giudici di merito, inoltre, doveva considerarsi raggiunta la prova della buona fede dell’importatore, dal quale non si poteva pretendere un livello di diligenza maggiore rispetto a quello della Dogana, che aveva ritenuto vera la documentazione presentatale.
 
Nel cassare la sentenza d’appello, i giudici di legittimità hanno accolto i motivi di ricorso presentati dall’Amministrazione doganale, fondati sull’omessa motivazione su fatto decisivo e controverso, nonché sulla violazione e falsa applicazione dell’articolo 220 del codice doganale comunitario, istituito dal regolamento Cee del 12 ottobre 1992, n. 2913.
 
Sotto il primo profilo, secondo la Cassazione, gli esiti delle indagini comunitarie e la relazione Olaf rappresentavano il fatto giustificativo dell’ulteriore ripresa oggetto della impugnativa del contribuente. Benché l’Amministrazione avesse fondato su tali documenti il nucleo essenziale della propria difesa, le deduzioni riguardanti gli esiti della relazione Olaf erano state del tutto trascurate dalla Commissione tributaria regionale, che su questi aspetti, indubbiamente decisivi della lite, non si era pronunciata, disattendendo il principio secondo cui, “in tema di tributi doganali, gli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF ai sensi del Regolamento (CE) del Parlamento Europeo e del Consiglio n.1073 del 1999 hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria” (in questi termini, vedi Cassazione 21 aprile 2017, n. 10118.
Al riguardo, si ricorda che recentemente anche la Corte di giustizia si è pronunciata sul tema, affermando che una relazione dell’Olaf può essere presa in considerazione per stabilire se sono soddisfatte le condizioni alle quali un importatore possa invocare il legittimo affidamento al fine di opporsi a una contabilizzazione a posteriori dei dazi all’importazione (vedi sentenza 6 marzo 2017, causa n. C-47/16, Veloserviss SIA).
 
Sotto il secondo profilo, relativo al motivo di ricorso accolto dalla Cassazione e fondato sulla violazione e falsa applicazione dell’articolo 220 del codice doganale comunitario, i giudici di legittimità osservano che la Commissione tributaria regionale aveva riconosciuto l’esimente della buona fede senza compiere una esaustiva indagine e verifica circa l’esistenza dei presupposti richiesti dalla norma, la cui applicazione a favore del contribuente è subordinata a una pluralità di condizioni, che devono ricorrere cumulativamente.
E invero, è utile ricordare che, a tali fini, la citata disposizione del codice doganale comunitario richiede che sussista, in primo luogo, un “errore attivo” delle Autorità competenti, di natura tale da non poter essere riconosciuto dal debitore in buona fede, nonostante la sua esperienza e diligenza, e in ogni caso determinato da un comportamento attivo delle autorità medesime, non rientrandovi quello indotto da dichiarazioni inesatte dell’operatore; è, inoltre, richiesta l’osservanza da parte del debitore di tutte le disposizioni previste per la sua dichiarazione in dogana dalla normativa vigente (vedi Cassazione 27 marzo 2013, n. 7702).
 
Ciò posto, la Cassazione ritiene che i giudici di merito siano incorsi in un errore evidente, laddove hanno riconosciuto la rilevanza della buona fede in forza del rilievo che non si potrebbe pretendere “che il contribuente sia più diligente della Dogana”, che non si era accorta che il certificato di origine preferenziale rilasciato dalle Autorità filippine era stato emesso sulla base di false informazioni presentate al momento dell’esportazione.
Secondo la Cassazione, ragionando in questi termini, la Commissione tributaria regionale avrebbe imputato all’Autorità non un comportamento attivo, ma un comportamento omissivo: al contrario, secondo la giurisprudenza della Corte, “lo stato soggettivo di buona fede dell’importatore, richiesto dall’art.220, secondo comma, lett.b), del Regolamento CEE n.2913 del 1992 (cosiddetto codice doganale comunitario) ai fini dell’esenzione della contabilizzazione a posteriori, non ha valenza esimente in re ipsa, ma solo in quanto sia riconducibile ad una delle situazioni fattuali individuate dalla normativa comunitaria, tra le quali va annoverato l’errore incolpevole, purché però esso sia imputabile a comportamento “attivo” delle autorità doganali nel rilasciare le certificazioni all’esito dei controlli sulle dichiarazioni di provenienza degli esportatori” (in questi termini, si veda la sentenza 31 marzo 2010, n. 7837).
 
 
a cura di Giurisprudenza delle imposte edita da ASSONIME
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