In tema di reati tributari, la configurabilità dell’ipotesi prevista dall’articolo 2 del Dlgs n. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o di altri documenti per operazioni inesistenti) non subisce alcuna distinzione a seconda dell’imposta evasa (sui redditi o Iva) né del carattere soggettivo ovvero oggettivo dell’inesistenza delle operazioni rappresentate nelle fatture (o nei documenti equivalenti). Ai fini della prova della consapevolezza, in capo all’imputato, della inesistenza soggettiva delle operazioni fatturate assumono rilevanza, tra l’altro, il particolare rapporto fiduciario intercorrente con il consulente e la circostanza che tutte le società coinvolte nella frode siano assistite dal medesimo professionista. Questi, in sintesi, i principi ribaditi dalla Corte di cassazione, III sezione penale che, con la sentenza n. 1998 del 20 gennaio scorso, ha operato un interessante approfondimento in merito agli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa in argomento.
La vicenda processuale
Il rappresentante legale pro tempore di una società di capitali veniva condannato in primo grado, con sentenza confermata dalla Corte d’appello, in quanto ritenuto colpevole del reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, di cui all’articolo 2 del Dlgs n. 74/2000, in relazione al periodo d’imposta 2010.
L’imputato proponeva ricorso per cassazione, formulando due motivi:
- violazione di legge relativamente alla sussistenza del fatto e alla data della sua eventuale commissione atteso che non sarebbe stata prodotta agli atti la dichiarazione fiscale presentata dalla società e, pertanto, mancherebbe la prova documentale dell’utilizzo delle fatture contestate, che rappresenta un imprescindibile elemento costitutivo della fattispecie delittuosa in oggetto, la cui punibilità verrebbe così impropriamente anticipata al ricorrere della mera detenzione delle stesse
- assenza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla inesistenza oggettiva delle prestazioni fatturate. In particolare, la difesa del ricorrente insisteva sul riconoscimento dell’esistenza quantomeno oggettiva delle operazioni, inquadrando la fattispecie nell’ambito dell’inesistenza soggettiva e spostando, così, l’accertamento sulla consapevolezza, in capo all’imputato, in ordine alla identità del soggetto giuridico che ha reso le prestazioni stesse. Tale consapevolezza veniva, quindi, negata in virtù della stretta relazione fiduciaria in essere con il consulente finanziario e della circostanza che le società emittenti le fatture erano state indicate e proposte al ricorrente dal medesimo professionista.
La pronuncia della Corte suprema
Nel dichiarare inammissibili entrambi i motivi di ricorso addotti dall’imputato, la Corte compie una interessante ricostruzione degli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa in argomento, soffermandosi sulla condotta, sull’elemento psicologico normativamente richiesto ai fini della punibilità dell’agente, nonché sul significato della locuzione inesistenza.
Così, per quanto concerne il perfezionamento del reato, i giudici di legittimità ribadiscono come tale fattispecie criminosa si configuri come un reato di pericolo e di mera condotta, che si perfeziona con la sola presentazione della dichiarazione (Cassazione, sezioni unite, pronuncia. n. 32348/2015), a prescindere dal verificarsi dell’evento di danno e, quindi, dall’effettività dell’evasione.
Con riferimento all’elemento oggettivo del reato, la condotta si articola in due fasi successive:
- in un primo momento, l’autore “raccoglie o riceve la documentazione inveritiera e se ne avvale registrandola nelle scritture contabili obbligatorie o conservandola come prova da far valere contro l’Amministrazione” in caso di accertamento
- in un secondo momento, l’autore presenta la dichiarazione (dei redditi o a fini Iva), che recepisce la falsa rappresentazione di cui la documentazione fittizia costituisce il supporto.
Sotto il profilo dell’elemento psicologico, ai fini dell’integrazione del reato è richiesto il dolo specifico, rappresentato dal perseguimento della finalità evasiva. Al riguardo, la Corte incidentalmente ribadisce la compatibilità della fattispecie in oggetto con la figura del dolo eventuale, ammettendo la configurabilità del reato “ove l’accettazione del rischio attenga alla possibilità di evadere le imposte dirette o l’IVA, mediante la presentazione della dichiarazione comprensiva di fatture per operazioni inesistenti” (Cassazione, sezione III, pronuncia n. 52411/2018).
Quanto, poi, al significato di inesistenza, avuto riguardo all’articolo 1, lettera a), del Dlgs n. 74/2000, la Corte precisa che tale categoria si verifica “ogniqualvolta vi sia una divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale”, potendosi, quindi, distinguere tre ipotesi:
- l’inesistenza oggettiva, in presenza di documenti emessi a fronte di operazioni non realmente effettuate in tutto o in parte
- l’inesistenza giuridica che ricorre ove “la divergenza tra realtà e rappresentazione riguardi la natura della prestazione documentata in fattura (…) con ciò determinandosi una alterazione del contenuto del documento contabile”
- l’inesistenza soggettiva. Quest’ultima si verifica in presenza di documenti che, pur rappresentando un’operazione realmente eseguita, riferiscono la prestazione a soggetti diversi da quelli effettivi. In tal caso, come evidenziato dalla Cassazione, l’indicazione in fattura “di un soggetto diverso da quello che ha effettuato la fornitura non è circostanza indifferente ai fini dell’IVA, dal momento che la qualità del venditore può incidere sulla misura dell’aliquota e, conseguentemente, sull’entità dell’imposta che l’acquirente può legittimamente detrarre”. Peraltro, la categoria dell’inesistenza soggettiva non può in alcun caso essere circoscritta esclusivamente all’ambito Iva.
Ebbene, ai fini dell’integrazione del reato di cui all’articolo 2 del Dlgs n. 74/2000 non rileva il carattere oggettivo o soggettivo dell’inesistenza (Cassazione, sezione III, n. 30874/2018), in quanto, come evidenziato dai giudici di legittimità, il richiamato articolo 2 “nel riferirsi all’uso di fatture o altri documenti concernenti operazioni inesistenti, non opera alcuna distinzione…”.
Premesso questo opportuno inquadramento normativo e giurisprudenziale e tornando, in conclusione, al caso in esame, la Corte ritiene inammissibili entrambi i motivi di ricorso articolati dall’imputato: sotto il profilo del perfezionamento del reato, si afferma che “è indiscutibile la presenza materiale della dichiarazione” fiscale della società.
Relativamente, poi, alla ricorrenza dell’elemento psicologico, la censura è parimenti inammissibile, in quanto la Corte territoriale, “al fine di sostenere la consapevolezza del ricorrente” in ordine all’inesistenza soggettiva delle operazioni oggetto di fatturazione, ha correttamente valorizzato, tra l’altro, le seguenti circostanze: “a) le strettissime interrelazioni tra i soggetti – persone fisiche riconducibili alle società emittenti le fatture”, il consulente che le ha segnalate e l’imputato e b) l’evidenza che tutte le società coinvolte sono assistite dal medesimo consulente e hanno stabilito la propria sede legale presso il suo studio professionale.
Alla luce di tutto quanto esposto, dunque, la motivazione della sentenza di appello appare del tutto immune dai vizi denunciati, con la conseguenza della conferma della condanna dell’imputato per il reato di dichiarazione fraudolenta di cui al più volte richiamato articolo 2.