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Giurisprudenza

Paga le sanzioni il cessionario
che non regolarizza le fatture

La violazione riveste carattere meramente formale solo se non ostacola l’attività di accertamento e non incide sulla determinazione della base imponibile Iva e sul versamento del tributo

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Il cessionario/committente, che riceve una fattura senza l'indicazione dell'ammontare dell'imposta, deve sempre verificare se la stessa contenga una delle annotazioni sostitutive e, in mancanza, procedere alla regolarizzazione. È quindi legittima l’irrogazione delle sanzioni da parte dell’Agenzia delle entrate. Lo ha precisato la Corte di cassazione, con la sentenza n. 14275 dell’8 luglio 2020, con la quale ha chiarito alcuni rilevanti aspetti in tema di sanzioni in caso di omessa regolarizzazione di fatture ricevute da parte del cessionario.

Nel caso in argomento, l'Agenzia delle entrate aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Toscana, che aveva confermato la sentenza di primo grado con cui era stato accolto il ricorso della società contribuente avverso due avvisi di irrogazione sanzioni Iva, uno per il 2001 e l’altro per gli anni 2002-2004.
Con il primo motivo di ricorso, l’amministrazione denunciava la violazione dell'articolo 6, comma 8, del Dlgs n. 471/1997 e dell'articolo 21 del Dpr n. 633/1972, laddove la sentenza impugnata aveva escluso la responsabilità amministrativa della società, sul presupposto che tale norma sanzioni il cessionario o il committente, per la mancata regolarizzazione di fatture irregolari emesse dal cedente o del commissionario, solo nelle ipotesi in cui le mancanze commesse dal cedente riguardino l'identificazione dell'atto negoziale e la notizia dei dati fiscali rilevanti, concludendo che "ciò vuol dire che se la fattura è corretta sotto il punto di vista formale, il cessionario non è tenuto alle valutazioni giuridiche espresse dall'emittente".
Con una seconda censura, poi, l’Agenzia deduceva la violazione dell'articolo 10, comma 3, della legge n. 212/2000, nella parte in cui la Ctr aveva affermato che, in ogni caso, nella specie, le sanzioni previste per la mancata regolarizzazione non erano irrogabili nei confronti della cessionaria, avendo la società cedente successivamente versato l'imposta ed emesso regolare nota di debito nei confronti della stessa cessionaria, rendendo quindi la violazione contestata alla cessionaria meramente formale.

Secondo la suprema Corte entrambe le censure erano fondate.
Quanto al primo motivo di impugnazione, i giudici di legittimità rilevano che l’interpretazione dell'articolo 6, comma 8, del Dlgs n. 471/1997, data dalla Ctr era in sé anche condivisibile e conforme all'insegnamento della giurisprudenza della stessa Cassazione, la quale esclude che sia richiesto al soggetto che riceve la fattura un controllo di natura sostanziale in ordine alla corretta qualificazione fiscale dell’operazione, dato che l'inclusione, fra i compiti del cessionario o committente, di un apprezzamento critico su quanto l'emittente di fattura completa dichiari in ordine alla non imponibilità dell'operazione trasformerebbe l'obbligato in rivalsa in un collaboratore con funzioni di supplenza di esclusiva pertinenza dell'ufficio finanziario, introducendo una sorta di accertamento "privato" (cfr Cassazione nn. 1841/2000, 4284/2001 e 7681/2003).
Tuttavia, il Collegio evidenzia che, nel caso concreto, l'articolo 6, comma 8, era stato però falsamente applicato dalla Ctr, poiché le fatture erano state emesse dalla cedente nei confronti dell'intimata senza applicazione dell'Iva, mentre l'articolo 21, comma 2, lettera i) del Dpr n. 633/1972 stabilisce espressamente che la fattura deve contenere l'indicazione dell'aliquota, dell'ammontare dell'imposta e dell'imponibile, mentre il comma 6 dello stesso articolo elenca i casi in cui l'ammontare dell'imposta può essere omesso e le annotazioni che è necessario inserire in luogo di tale ammontare (nel caso in esame, sarebbe stato necessario che la fattura contenesse l'annotazione "operazione non imponibile").
La Cassazione rileva, quindi, che il cessionario/committente che riceva una fattura senza l'indicazione dell'ammontare dell'imposta, se da un lato non è tenuto a valutare la congruità della eventuale annotazione sostitutiva rispetto all'operazione realizzata, poiché tale valutazione si tradurrebbe in un apprezzamento critico della natura giuridica dell'operazione (apprezzamento che, come detto, non è esigibile dal cessionario), dall’altro è chiamato a verificare se la fattura stessa contenga comunque una delle annotazioni sostitutive e, in mancanza, a procedere alla regolarizzazione.

La Corte di legittimità evidenzia poi come anche il secondo motivo di impugnazione fosse fondato.
I supremi giudici osservano infatti che, in tema di sanzioni tributarie, la violazione riveste carattere meramente formale (e, dunque, non è punibile ex articolo 10 dello Statuto del contribuente) solo nel caso in cui essa non comporti un pregiudizio all'esercizio delle azioni di controllo e, al contempo, non incida sulla determinazione della base imponibile dell'imposta e sul versamento del tributo (cfr Cassazione nn. 27211/2014 e 23352/2017).
Nel caso dell'articolo 6, comma 8, del Dlgs n. 471/1997, tuttavia, la funzione dell'obbligo di regolarizzazione, posto a carico del cessionario e del committente, è proprio quella di far emergere l'emissione di fatture irregolari da parte del cedente e del commissionario, così da agevolare l'accertamento della responsabilità di questi ultimi.
Pertanto, l'omessa regolarizzazione da parte del cessionario o del committente è proprio la condotta che impedisce o comunque ritarda l'esercizio delle azioni di controllo, volte a recuperare l'imposta evasa dal cedente o dal commissionario e ad applicare nei loro confronti le relative sanzioni.
Anche l'articolo 10, comma 3, dello Statuto del contribuente era stato, dunque, erroneamente applicato dalla Ctr, restando del tutto irrilevante che la cedente avesse successivamente versato l'imposta.

Tanto premesso, in ordine allo specifico caso processuale, in termini più generali, giova anche evidenziare quanto segue.
Il controllo sulla irregolarità della fattura richiesto al cessionario è limitato, in conclusione, alla regolarità formale della fattura, e, dunque, alla verifica dei requisiti essenziali individuati dall'articolo 21 del Dpr n. 633/1972.
L'obbligo di regolarizzazione riguarda quindi soltanto i vizi evidenti, non potendosi estendere, invece, a casi in cui l'erronea fatturazione dipende da un’interpretazione del rapporto sottostante.

È chiaro, del resto, che una distorta o falsa rappresentazione della realtà, desumibile da una fattura che indichi comunque tutti i dati richiesti dalla normativa, in presenza della buona fede del cessionario, giustifica la disapplicazione delle sanzioni, mancando appunto quell’elemento soggettivo necessario ai fini della responsabilità sanzionatoria (discorso diverso, invece, per esempio, va fatto nel caso del regime del margine, laddove, costituendo questo un regime impositivo speciale rispetto a quello ordinario, colui il quale intenda avvalersene non può limitarsi a un mero controllo di regolarità formale delle fatture, ma deve verificare anche la regolarità sostanziale dell'operazione – cfr Cassazione, sentenza n. 9736/2015).

Il controllo sulla irregolarità della fattura, richiesto al cessionario o al committente, è dunque limitato (e necessario) in riferimento ai dati relativi alla natura, qualità, quantità dei beni e dei servizi, all'ammontare del corrispettivo, all'aliquota e all'ammontare dell'imposta e dell'imponibile.
Controllo che, appunto, nel caso in giudizio, non era stato, colpevolmente, effettuato.

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