Il fatto
Si sarebbe, sostanzialmente, in presenza di motivazione per relationem non sufficiente a giustificare la pretesa del Fisco, per non avervi aggiunto ulteriori autonome acquisizioni. Nella specie, la sentenza del giudice d’appello riteneva che i verificatori avrebbero preso in considerazione – da cui l’accertamento fotocopia dell’ufficio – la perizia già utilizzata in sede penale, senza alcuna rivalutazione in sede tributaria e, in particolare, senza verifica della contabilità della società che avrebbe agito da cartiera per fatturazione fittizia.
L’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per Cassazione, deducendo:
- vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del riesame non ha considerato che erano proprio i riscontri e le analisi operati dall’Amministrazione finanziaria nel suo complesso a legittimare l’accertamento induttivo, peraltro basato sul rinvenimento di una contabilità parallela da cui emergevano operazioni in nero suffragate incontrovertibilmente da documentazione bancaria, ritualmente trasmessa dall’Istituto di credito
- violazione di legge (articoli 39 e 40 del Dpr 600/1973, nonché articoli 2697, 2727 e 2729 cc e 220 cpp) per non avere il giudice d’appello ritenuto provata la pretesa recata dagli avvisi opposti, basati su una serie di elementi inequivoci (documentali e testimoniali), compresa la perizia contabile disposta dal Pm nell’ambito del processo penale inerente gli stessi fatti oggetto del giudizio tributario.
La decisione della Cassazione
Inoltre, l’uso di elementi acquisiti nell’ambito di procedure riguardanti anche altri soggetti non viola disposizioni che regolano l’accertamento o il principio del contraddittorio, né il riparto dell’onere probatorio. L’articolo 39 del Dpr 600/1973 dispone, infatti, che gli uffici possono procedere alla rettifica sulla base di presunzioni gravi precise e concordanti, tratte da atti e documenti in loro possesso (cfr Cassazione, sentenze nn. 24967/2005 e 9100/2001), purché tale documentazione sia resa nota al contribuente ed esibita in giudizio (cfr Cassazione, sentenze nn. 6311/2008 e 24433/2008).
Ancora, è di pochi giorni fa la statuizione che il patteggiamento penale sull’evasione è una prova sufficiente per validare in sede fiscale l’accertamento induttivo (Cassazione, sentenza n. 24587/2010).
Nell’ordinanza n. 25211/2010, la Suprema corte aggiunge che, in senso opposto, è proprio l’esame superficiale del giudice dell’appello che ha integrato violazione della normativa denunciata dall’ente impositore, considerato che la Commissione del riesame si è insufficientemente limitata a esternare un’assiomatica affermazione di principio della mancata integrazione della motivazione, da parte dell’ufficio fiscale, senza valutare l’apporto complessivo emergente dalla verifica della Guardia di finanza (come il rinvenimento di una contabilità parallela confermata anche dalle dichiarazioni degli ex dipendenti dell’azienda, che rispondeva perfettamente alle volizioni contenute negli articoli 39 e 40 del Dpr 600/1973, né era configgente con le disposizioni civilistiche in materia di presunzioni e di onere della prova, di cui agli articoli 2697, 2727 e 2729 cc; e neppure si poneva in antitesi con l’articolo 7 dello Statuto del contribuente, in quanto tutti gli atti istruttori erano conosciuti dal destinatario).
Quindi, la valutazione della perizia contabile formata in sede penale, al fine di utilizzare gli elementi ricavati dalla consulenza per il conseguente recupero delle imposte evase, insieme a tutti gli altri elementi acquisiti nel corso della verifica – e recepiti dall’ufficio con la trasposizione nella motivazione dell’avviso di accertamento – costituiscono indizi forniti di gravità, precisione e concordanza tali da supportare la pretesa dell’Amministrazione.