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Giurisprudenza

Prezzo lontano dal valore normale.
Dietro l'occasione, c'è l'evasione

Quando lo scostamento è troppo evidente e l'impresa edile vende le costruzioni guadagnando praticamente nulla, l'ufficio, in via generale, può rettificare l'incasso dichiarato

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La cessione di unità immobiliari a un prezzo vicino al costo di costruzione è un'operazione che può essere considerata contraria ai canoni di economicità se la società cedente non fornisce idonea prova contraria all'Amministrazione finanziaria. In tale ipotesi, l'anomalo scostamento tra valore normale e prezzo di cessione costituisce presunzione grave e precisa e l'Agenzia delle Entrate può legittimamente procedere a rideterminare il prezzo di cessione verosimilmente incassato dalla società cedente e a recuperare le corrispondenti maggiori imposte evase.
Così ha stabilito la Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 18178 del 16 settembre 2015.

Il fatto
La vicenda ha preso origine dal ricorso proposto da una società immobiliare contro un avviso di accertamento, con cui l'ufficio finanziario aveva rettificato il corrispettivo di vendita di una serie di unità immobiliari effettuate nel 2004 in quanto, essendo stati i cespiti venduti a prezzi pressoché pari al costo dei materiali utilizzati per la loro costruzione e non avendo fornito l'impresa idonea prova contraria, le operazioni dovevano considerarsi contrarie ai canoni dell'economicità.
Sulla base di tale ragionamento, pertanto, l'ufficio accertatore aveva rideterminato i prezzi di vendita degli immobili in questione in base al loro valore normale e ripreso a tassazione il maggior imponibile ai fini Ires, Irap e Iva.

Il ricorso della società, respinto in primo grado, trovava accoglimento in appello laddove la Ctr aveva ritenuto non applicabile al caso il criterio del "valore normale" per la determinazione del presumibile corrispettivo di cessione degli immobili perché introdotto, nel nostro ordinamento, in epoca successiva (2006) rispetto al periodo d'imposta cui le operazioni sono state compiute (2004).

Avverso la pronuncia d'appello l'Agenzia delle Entrate ha interposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
La Corte suprema ha accolto il primo motivo di doglianza proposto dalla parte pubblica, con assorbimento anche del secondo, e ha cassato la sentenza con rinvio a diversa sezione della Ctr.

La decisione
Con il principale motivo di ricorso l'Agenzia delle Entrate ha contestato l'assunto della società secondo cui il criterio del "valore normale" non potrebbe essere applicabile a periodi d'imposta antecedenti all'emanazione della relativa normativa.
Si fa riferimento alla disciplina introdotta dall'articolo 35, comma 2, del Dl 223/2006, che ha integrato l'ultimo periodo dell'articolo 54, comma 3, del Dpr 633/1972: tale periodo è stato successivamente abrogato per la sua incompatibilità con l'ordinamento comunitario.

Nel periodo di vigenza, la norma stabiliva che "per le cessioni aventi ad oggetto beni immobili e relative pertinenze, la prova di cui al precedente periodo s'intende integrata anche se l'esistenza delle operazioni imponibili o l'inesattezza delle indicazioni di cui al comma precedente sono desunte sulla base del valore normale dei predetti beni".
A tal riguardo, l'Agenzia ha eccepito che l'applicazione del criterio previsto dall' articolo 35 "aveva costituito regola di valutazione e giudizio per l'Amministrazione e non certo requisito di legittimità dell'avviso, nel senso che anche ante emanazione del menzionato decreto lo scostamento del valore normale e prezzo dichiarato poteva essere elemento sufficiente a costituire presunzione grave, precisa e concordante".
In base a tale criterio, pertanto, ha errato la competente Ctr allorquando, muovendo dalla accertata antieconomicità delle vendite immobiliari, non ha ritenuto applicabile il criterio del valore normale anche nel 2004, nonostante la modifica normativa sia entrata in vigore solo nel 2006.

I giudici della Cassazione hanno ritenuto fondato il motivo di impugnazione proposto dall'Agenzia delle Entrate, individuando, al contempo, le lacune presenti nella sentenza emessa dalla Ctr.
Questa, infatti, sebbene, da un lato, avesse rilevato che il contribuente, su cui incombeva l'onere di provare l'illegittimità della presunzione, non era stato in grado di fornire idonea prova contraria in ordine alla contestata antieconomicità dell'operazione, dall'altro aveva considerato illegittimo il criterio del valore normale applicato dall'Amministrazione finanziaria per il solo fatto che tale principio non fosse assistito "dalla natura di presunzione legale".
Al contrario, i giudici di merito avrebbero dovuto verificare se le presunzioni avanzate dall'ufficio finanziario fossero sufficienti a integrare un valido criterio per la determinazione dell'effettivo prezzo di vendita, in quanto il giudice tributario può decidere sul quantum debeatur allorquando "il contribuente abbia contestato l'invalidità dell'avviso di accertamento per motivi non formali ma di carattere sostanziale".

In buona sostanza, l'anomalo scostamento tra valore normale e prezzo di cessione, pressoché pari al costo per la costruzione degli immobili, a fronte del quale il contribuente non è in grado di fornire adeguata prova contraria, costituisce elemento sufficiente a costituire presunzione grave, precisa e concordante e a rendere, di conseguenza, legittimo il relativo avviso di accertamento e ciò anche in presenza di una contabilità formalmente corretta.
Ai fini delle imposte dirette, infatti, è sempre legittimo il ricorso all'accertamento analitico-induttivo, ex articolo 39, comma 1, lettera d), del Dpr 600/1973, anche in presenza di una contabilità regolare "ma complessivamente inattendibile potendosi, in tale ipotesi, evincere l'esistenza di maggiori ricavi o minori costi in base a presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, con conseguente spostamento dell'onere della prova a carico del contribuente (così Sent. Cass. N. 23550 del 05/11/2014)".
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