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Giurisprudenza

I prodotti difettosi non abbassano l’imponibile dell’azienda

Ai fini del calcolo del reddito di impresa, non possono essere detratte le spese sostenute per il loro ripristino

tazzina rotta
La Corte di cassazione, con sentenza n. 869 del 15 gennaio, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria in tema di valutazione delle rimanenze finali per la determinazione del reddito di impresa, stabilendo - sostanzialmente - che, qualora un’azienda abbia in magazzino prodotti “difettosi”, il suo reddito imponibile non si riduce, in quanto tali prodotti non sono beni “in lavorazione” e il loro valore, ai fini della determinazione del reddito di impresa, si calcola per intero, in base al costo di produzione sostenuto o al minore tra costo di produzione e valore di vendita. Non vanno perciò detratte le spese occorse per ripristinarli.
 
Il fatto
A seguito sentenza di primo grado favorevole a una Spa, che aveva impugnato accertamenti Irpeg emessi nei suoi confronti, la Commissione tributaria regionale respingeva l’appello dell’ufficio, nella cui sentenza si legge che:
a)      la differenza di valore del magazzino per l’anno accertato traeva origine dalla differenza di prezzo attribuita ad alcuni prodotti risultati “difettosi”, i quali, dovendo considerarsi “in corso di lavorazione”, non erano soggetti a “registrazione nelle scritture obbligatorie” di cui all’articolo 14 del Dpr 600/1973
b)       avuto riguardo alla ripresa a tassazione della minusvalenza costituita dalla differenza tra il “valore normale” e il minor valore attribuito dall’azienda ad alcuni beni per la ragione predetta, tenendo conto esclusivamente dei costi sostenuti, il concetto di valore normale deve raccogliere “tutti gli elementi quantitativi e qualitativi che nel momento della valutazione il bene esprime”, mentre il contribuente sosteneva che non poteva valutare i beni al prezzo di mercato in quanto non ancora venduti.
 
L’agenzia delle Entrate ha quindi impugnato la sentenza del riesame, i cui due motivi qui di interesse attengono agli istituti della valutazione delle rimanenze e del valore normale dei beni nel sistema dell’imposizione diretta (rispettivamente articoli 59 e 9 del Tuir nei testi vigenti ratione temporis):
1.      con il primo, viene denunciata l’erronea conferma, da parte dei giudici della Ctr, dell’annullamento della ripresa a tassazione per sottostima delle giacenze di magazzino alla fine dell’esercizio, posto che la contribuente aveva esposto rimanenze finali - tubi prodotti e rivenduti, nella specie, dalla società resistente - attribuendo a una parte di essi (“tubi di prima scelta”) il loro effettivo valore e ad altra parte - identificata come “tubi di seconda scelta” - un valore inferiore, mentre l’intera quantità di tubi prodotti nell’anno e giacenti in magazzino doveva invece essere valutata al costo di produzione. Ciò, fermo restando che, in caso di successiva vendita a un prezzo inferiore rispetto al costo di produzione, si sarebbe verificata a favore del contribuente una minusvalenza concorrente nella determinazione del risultato di esercizio. Ai fini della corretta rilevazione fiscale, l’Amministrazione finanziaria precisa che i “tubi di seconda scelta”, per i difetti di costruzione che presentavano, dovevano essere considerati non “prodotti in corso di lavorazione” ma “prodotti finiti difettosi”, ossia andavano valutati al costo di produzione e, come tali, erano da annotare nelle scritture ausiliarie di magazzino
2.      con il secondo motivo, si censura la sentenza impugnata per conseguente conferma dell’annullamento della ripresa a tassazione della sottostima delle rimanenze finali, rilevandosi al contrario che la società ha determinato in maniera errata il valore normale unitario dei beni, facendo riferimento alla media dei prezzi di acquisto dell’ultimo trimestre invece di fare riferimento al prezzo medio di vendita dell’ultimo trimestre, come disposto dall’articolo 9, comma 3, del Dpr 917/1986, che definisce il “valore normale” come il corrispettivo mediamente praticato sul mercato per beni della stessa specie.
 
La Suprema Corte, ribaltando i giudizi di merito, ha accolto totalmente l’articolato ricorso introduttivo dell’Amministrazione finanziaria, cassando con rinvio la sentenza impugnata.
 
Motivi della decisione
La pronuncia 869/2009, confermando la correttezza degli assunti di indole contabile-tributaria di parte pubblica, ribadisce - in primo luogo - che il criterio generale di valutazione delle rimanenze ai fini fiscali è contenuto nell’articolo 59, comma 2, del Dpr 917/1986, il quale stabilisce che le rimanenze finali sono valutate attribuendo a ogni unità il valore risultante dalla divisione del costo complessivo dei beni prodotti e acquistati nell’esercizio per la loro quantità o al minore tra tale costo e il valore normale determinato come prezzo medio di mercato, secondo la normativa fiscale.
Il successivo comma 5 specifica poi che i “prodotti in corso di lavorazione” e i “servizi in corso di esecuzione” al termine dell’esercizio sono valutati in base alle spese sostenute nell’esercizio stesso (salvo quanto stabilito nell’articolo 60 per le opere, le forniture e i servizi di durata ultrannuale).
Dal tenore letterale delle richiamate disposizioni, la Cassazione trae la conseguenza che i prodotti difettosi non sono affatto in lavorazione e che il loro valore andava calcolato per intero. Ecco perché, ha spiegato la sezione tributaria, la Commissione del riesame ha errato nell’individuazione dei criteri di valutazione delle rimanenze, laddove attribuisce, con un’affermazione di principio, una differenza di prezzo a prodotti definiti “difettosi”, ma senza enunciare le ragioni che sostengono l’asserzione, peraltro in contrasto con le disposizioni che disciplinano la materia.
Si aggiunge, per completezza, che i prodotti in corso di lavorazione e i servizi in corso di esecuzione, cui non sono applicabili le norme dell’articolo 60 del Tuir (oggi articolo 93), si valutano al “costo specifico”, pari agli oneri diretti e a quelli accessori di diretta imputazione.
 
In secondo luogo, rileva la Cassazione che la Ctr ha anche errato nel richiamare i criteri dettati da una diversa disciplina giuridica e ad altri fini, quali quelli della formazione del bilancio societario, ribadendo che le norme espresse nell’articolo 2425 c.c. sono derogate, in materia di valutazione delle rimanenze finali (ove le rimanenze vanno iscritte al costo di acquisto o di produzione o al valore di mercato se minore), dalle norme fiscali dettate in tema di determinazione del reddito imponibile.
Nell’enunciare tale assunto, la Corte ha chiarito, in relazione alla determinazione del reddito di impresa, che, per la valutazione ai fini fiscali delle varie componenti attive e passive del reddito, esiste un principio generale desumibile dall’articolo 9 del Tuir, il quale non ha soltanto valore contabile e che impone quale criterio valutativo il riferimento al “valore normale” di mercato per i corrispettivi, proventi, spese e oneri in natura presi in considerazione dal contribuente.
Tale valore, non solo formale ma sostanziale, viene individuato, dal terzo comma della disposizione (invariata rispetto all’attuale formulazione e analoga anche per l’Iva, secondo l’articolo 14 del Dpr 633/1972), nel prezzo o corrispettivo mediamente praticato per i beni o servizi della stessa specie o similari in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione, nel tempo e nel luogo in cui i servizi sono stati acquistati o prestati, dovendo farsi riferimento, in quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i servizi.
 
Ne consegue che, nella specie, l’Amministrazione finanziaria non può considerare legittimamente appostati costi ingiustificati, nella parte superiore al normale valore di mercato (Cassazione, sentenza 10802/2002).
Ne deriva che l’esegesi delle disposizioni impositive valorizzate dalla Cassazione vanno a configgere, destituendole di giuridico fondamento, con le surrettizie considerazioni assunte nella determinazione del valore normale delle rimanenze dal giudice di appello, non essendo previsto da detta normativa che tutti gli elementi quantitativi e qualitativi rilevanti ai fini di tale concetto debbano essere “noti” al contribuente né, tanto meno, che, in mancanza di detta conoscenza, possa assumersi come “valore normale” quello ottenuto sulla base del solo criterio dei costi sostenuti per i beni in questione.
 
Conclusioni
Riassumendo i punti d’arrivo della Suprema corte nella vicenda trattata, si rileva, in particolare, che la società contribuente:
a.       avrebbe dovuto far risultare la svalutazione delle scritture ausiliarie di magazzino come prodotto difettoso, in quanto dal modo in cui si è proceduto contabilmente non risulta provata la quantità di tali prodotti difettosi
b.      non avrebbe dovuto includere i prodotti difettosi tra le lavorazioni in corso ma tra i prodotti finiti
c.       avrebbe dovuto applicare la minore valutazione tra il costo e il valore normale, derivando quest’ultimo dal prezzo medio di vendita dell’ultimo trimestre e non dal costo medio dell’ultimo trimestre.
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