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Giurisprudenza

I proventi illeciti vanno tassati
anche se già restituiti alla vittima

Secondo un preciso orientamento della Corte di legittimità, il presupposto dell'imposizione è soltanto il possesso di un reddito, indipendentemente dalla sua provenienza

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L’articolo 14, comma 4, legge n. 537/1993, nel sottoporre a tassazione i proventi illeciti, non distingue tra novella ricchezza prodotta dal reato e ricchezza precedentemente tassata presso la persona offesa. Il pretium sceleris si deve quindi sempre considerare come reddito imponibile, e ciò pure se il contribuente sia stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate e al risarcimento dei danni cagionati.

La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 27357 del 24 ottobre 2019, ha chiarito alcuni rilevanti profili in tema di tassazione dei proventi illeciti.
Nel caso in esame, la Commissione tributaria regionale dell'Emilia Romagna aveva rigettato sia l'appello principale proposto dal contribuente che quello incidentale dell'Agenzia delle entrate, contro la sentenza della Ctp di Modena, che aveva parzialmente accolto il ricorso del contribuente contro l’avviso d’accertamento per imposte dirette e Iva 2012, emesso a seguito del recupero a tassazione di redditi ritenuti provenienti da reato.

Avverso tale decisione, l’amministrazione finanziaria proponeva ricorso per cassazione, deducendo la violazione e falsa applicazione dell'articolo 14, comma 4, legge n. 537/1993, per avere la Ctr ritenuto non necessario prendere posizione sull'appropriazione, da parte del contribuente, di ricchezze dei propri assistiti in sede di amministrazione di sostegno, ritenendo i giudici di appello di condividere la decisione di primo grado, secondo cui la questione sarebbe stata priva di interesse, in quanto somme non imponibili, riferendosi la previsione di legge, ad avviso dei giudici di merito, solo all'attività economica produttiva di nuova ricchezza, mentre, nel caso in esame, le ricchezze erano già state tassate presso le vittime.

Secondo la suprema Corte la censura era fondata.
Evidenziano infatti i giudici di legittimità che “in tema di imposte sui redditi, i proventi derivanti da fatti illeciti, rientranti nelle categorie reddituali di cui all'art. 6, comma primo, del d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, devono essere assoggettati a tassazione anche se il contribuente è stato condannato alla restituzione delle somme illecitamente incassate ed al risarcimento dei danni cagionati” (cfr Cassazione, sentenze nn. 7511/2000 e 21746/2005).

Rileva poi la Cassazione che l'articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993, laddove stabilisce che nelle categorie di reddito di cui all'articolo 6, primo comma, del Dpr n. 917/1986, devono intendersi ricompresi i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo, costituisce interpretazione autentica della normativa contenuta nel Tuir.
Ne consegue quindi che il pretium sceleris si deve sempre considerare come reddito imponibile, e ciò anche nel caso in cui, ad esempio, le somme siano state percepite da soggetti che si siano prestati, in base ad accordi precedentemente intercorsi, a riversarle a terzi a titolo di "tangente", essendo del tutto irrilevante, quanto all'imponibilità di tale tipo di reddito, l'intenzione di non trattenerle nel proprio esclusivo interesse (cfr Cassazione, sentenza n. 1058/2008).

Premesso, dunque, che la previsione di legge citata non distingue tra novella ricchezza prodotta dal reato e ricchezza tout court, precedentemente tassata presso la persona offesa, secondo la suprema Corte, i principi giurisprudenziali sopra richiamati affermano chiaramente l'assoggettamento a tassazione di ogni tipo di proventi illeciti e dunque anche delle ricchezze di cui si sia indebitamente appropriato l'amministratore di sostegno, in quanto reddito imponibile, senza che sussista alcuna lesione dell'articolo 53 della Costituzione.

Detto questo, sullo specifico caso processuale, in via generale è bene dunque evidenziare che, secondo quanto stabilito dal richiamato articolo 14, tutte le attività illecite devono essere perseguite, non solo penalmente, ma anche fiscalmente, con tassazione dei relativi proventi.
La tassazione non “scatta” solo se viene disposta la confisca del profitto del reato.
L'illiceità penale non esclude la tassabilità del reddito da essa derivante, essendo il reddito un dato economico e non giuridico.
 

Quando il dibattito sull’introduzione della norma di cui alla legge 537/1993 (sulla scia, peraltro, di tangentopoli) venne introdotta, la dottrina, per parte sua, affrontò l’argomento, basandosi su due distinte posizioni:

  • l'una, per così dire, a carattere "giuridico", contraria all'imponibilità dei proventi illeciti
  • l'altra, per così dire, a carattere "economico", tendente, invece, ad ammetterla.

Secondo la prima tesi i proventi derivanti da attività illecite penalmente rilevanti non erano suscettibili di imposizione tributaria, dato che l'attività illecita non poteva essere considerata presupposto di imposta, costituendo il risultato ottenuto, pretium sceleris e non reddito tecnicamente e giuridicamente inteso; diversamente, secondo tale tesi, si sarebbe pervenuti alla conseguenza di chiedere all'autore dell'illecito di denunciare al Fisco i relativi proventi, con ciò finendo in sostanza con l'autodenunciarsi (in aperta violazione del noto principio nemo tenetur se detegere).

A sostegno, invece, della tesi della tassabilità, poi prevalsa, stava la considerazione che presupposto dell'imposizione è soltanto il possesso di un reddito (concezione cosiddetta "economica"), indipendentemente dalla sua provenienza.

In altre parole, chi trae proventi dall'attività illecita realizza, comunque, una ricchezza che costituisce la causa del pagamento di un tributo.

Per chi commette delitti da cui deriva un determinato provento, dunque, non vige alcuna immunità fiscale.
In base all’articolo 53 della Costituzione, del resto, ciascuno deve contribuire alle spese pubbliche. E vi deve dunque contribuire (a maggior ragione) anche chi delinque, o comunque ottiene proventi da attività illecite.
I canali di alimentazione e destinazione dei proventi illeciti possono essere peraltro i più vari. Tra questi, a titolo di mero (e non esaustivo) esempio, tangenti, traffico di droga, estorsioni, usura, racket della prostituzione e abusivismo commerciale.
Ricordiamo, infine, che, con la legge di stabilità 2016, comma 70-bis, è stato previsto che, nel caso di reati perseguibili d'ufficio e per i quali vige l'obbligo di denuncia ex articolo 331 cpp, se il pubblico ministero ritiene che dal reato possano derivare proventi o vantaggi illeciti, deve darne subito notizia all'Agenzia delle entrate, affinché questa svolga i propri accertamenti.

La norma è stata introdotta proprio al fine di stimolare gli accertamenti su proventi illeciti, con una più intensa e diretta collaborazione tra amministrazione finanziaria e Procure.

E questo, anche considerato che la fattispecie non rileva solo ai fini delle imposte dirette, ma anche ai fini Iva.

La sentenza n. 24471/2006 della suprema Corte ha infatti stabilito che, in forza dell'articolo 14, comma 4, della legge n. 537/1993, le attività illecite sono soggette, oltre che alle imposte sui redditi, anche all'Iva.

Secondo la Corte di legittimità, infatti, in ogni caso, l'attività illecita deve essere soggetta all'Iva in base ai principi dell'ordinamento comunitario, a cui l'Italia non può sottrarsi, secondo i quali (cfr Corte di giustizia Ue, causa C-283/95 dell'11 giugno 1998), se vi è concorrenza tra attività svolte lecitamente e illecitamente, non vi è distinzione tra operazioni lecite e illecite.

Analoghe considerazioni sono desumibili, inoltre, dalla sentenza n. 3550/2002 della Cassazione, secondo cui sono assoggettabili anche ad Iva, in forza del principio stabilito dall'art. 14, comma 4 della L. 24 dicembre 1993, n. 537, i proventi derivanti da attività illecita”.

Continua la Corte inoltre stabilendo che “l'affermazione di principio secondo la quale i proventi provenienti da attività illecita non sarebbero assoggettabili a imposta è manifestamente errata. Essa contrasta con il preciso disposto dell'art. 14, comma 4, della L. 24 dicembre 1993, n. 537, secondo il quale "i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo", devono intendersi ricompresi nelle categorie di reddito di cui all'art. 6 del Tuir. Anche se la norma è riferita alla disciplina delle imposte sul reddito, è inequivocabilmente una norma di principio, in forza della quale non si può eccepire la esenzione tributaria per i proventi derivanti da attività illecite”, anche ai fini Iva.

Quindi, alla luce dell'insegnamento della Corte suprema (cfr anche Cassazione, sentenze nn. 16504/2006, 21746/2005 e 13335/2003), l’articolo 14 citato rappresenta una norma di principio generale del nostro ordinamento, un criterio ermeneutico sistematico, valido sia ai fini delle imposte dirette che ai fini Iva.

Conseguentemente, se, da un lato, è stato effettivamente escluso che, per esempio, gli stupefacenti e il denaro falso non possono essere inseriti nel circuito economico per il loro carattere, intrinseco, di merci illecite, dall'altro, l'alcool etilico non presenterebbe tale carattere (benché l'importazione e la vendita siano soggette in alcuni Paesi ad autorizzazione). L'alcool importato di contrabbando sarebbe quindi del tutto in concorrenza con i prodotti alcolici legalmente venduti, di modo che farebbe sorgere comunque un debito doganale e d'imposta Iva.

L'eventuale deroga, invero, entra in considerazione “solo in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito e un settore illecito(cfr Corte di giustizia Ue, sentenze del 29 giugno 2000, causa C-455/98; sentenza 29 giugno 1999, causa C-158/98).

In conclusione, l’importanza di una tale azione di contrasto rileva sotto vari profili, sia latu sensu etico, come giusta reazione a comportamenti riprovevoli, sia economico/giuridico, come giusta imposizione su redditi comunque non dichiarati.

Con la legge 136/2010, del resto, è stato stabilito che indagini fiscali, economiche e patrimoniali, al fine di procedere ad accertamenti ai fini Iva e delle imposte sui redditi, possono essere avviate nei confronti degli “indiziati” di appartenere ad associazioni di stampo mafioso, ma anche per i sospettati di crimini messi in atto, in forma organizzata (con la partecipazione di tre o più componenti), come i sequestri di persona, lo sfruttamento della prostituzione, l’introduzione e il commercio nello Stato di prodotti falsi e altri ancora.
Naturalmente, le stesse indagini e accertamenti possono, a maggior ragione, essere indirizzate anche nei confronti di chi, per gli stessi crimini, è stato addirittura condannato, sebbene con sentenza non definitiva.
Ma, come visto, in via ordinaria e a prescindere dalla sussistenza di tali specifici reati, l’amministrazione finanziaria può sempre accertare e tassare i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo.
E, anche nel caso in cui il contribuente/imputato abbia patteggiato, la prova della legittimità della pretesa (fiscale) dell’amministrazione sarà del resto fornita ex se, laddove la Corte di cassazione ha stabilito in via consolidata che il patteggiamento costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice tributario nel processo relativo alla legittimità dell’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate per il recupero a tassazione dei proventi illeciti.

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