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Giurisprudenza

Reato di omessa dichiarazione
anche per il finto “prestanome”

Se la forma non rispecchia la sostanza e l’amministratore “ufficialmente” fuori dai giochi è invece parte attiva nella conduzione della ditta, per il fisco c’è corresponsabilità

uomo invisibile
Il rappresentante legale di una società, che si dichiara essere mero prestanome, risponde del delitto di omessa dichiarazione di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 74/2000 nel caso venga dimostrata la sua partecipazione attiva alla gestione della società, pur se la stessa è diretta di fatto da un altro imprenditore.
Inoltre, ai fini della determinazione dell’imposta evasa, i costi non sono presi in considerazione se non sono debitamente dimostrati e documentati, rilevando a riguardo le risultanze del controllo dell’ente verificatore.
Questi sono in estrema sintesi i principi espressi dalla Corte di cassazione con la sentenza 20286 del 28 maggio.
 
Il fatto
A seguito di una’attività di controllo condotta nei confronti di una società, il personale di polizia giudiziaria aveva proceduto alla constatazione di ricavi contabilizzati, ma non dichiarati ai fini Iva e delle imposte dirette, di ammontare superiore ai fini della determinazione della soglia di punibilità prevista dall’articolo 5 del Dlgs 74/2000.
 
Il reddito rilevato in sede di verifica era costituito unicamente da fatture emesse dalla ditta non essendo documentati i relativi costi.
Il tribunale di primo grado aveva condannato il legale rappresentate della società per il reato di omessa dichiarazione e la Corte d’appello confermava in toto la sentenza.
Avverso tale decisione, veniva proposto ricorso in Cassazione sulla base di due motivi.
Con il primo, il ricorrente lamentava violazione di legge e vizio di motivazione della sentenza nel punto in cui il tribunale aveva considerato l’accusato responsabile nonostante questi fosse soltanto amministratore “formale” della ditta, nella quale operava soltanto come mero prestanome, essendo reale amministratore un terzo.
Con il secondo motivo, il ricorrente deduceva violazione e vizio di motivazione in relazione alla verifica compiuta dai giudici in merito al superamento della soglia di punibilità prevista all’articolo 5 del Dlgs 74/2000, avendo considerato a tal fine solo i ricavi e non i costi.
 
La Corte suprema ha ritenuto il ricorso inammissibile perché basato su motivi manifestamente infondati.
 
La decisione
Nella sentenza in commento, la Corte di cassazione si è espressa in tema di responsabilità del reato di omessa presentazione della dichiarazione dei redditi da parte di una società.
La questione verte sull’ammissibilità della tesi avanzata dall’amministratore “formale” della società, che ha richiamato la sentenza 23425/2011 della Cassazione, secondo cui la responsabilità per il reato contestato andrebbe attribuita esclusivamente all’amministratore di fatto e non anche a quello di diritto.
In buona sostanza, il ricorrente sosteneva di essere il mero prestanome della società e, in quanto tale, non avrebbe dovuto rispondere del reato di omessa presentazione della dichiarazione, ex articolo 5, Dlgs 74/2000, in mancanza del presupposto soggettivo.
Infatti, considerando il criterio “funzionalistico” o “dell’effettività”, rimarcato dai giudici nella citata sentenza, “il dato fattuale della gestione sociale deve prevalere sulla qualifica formalmente rivestita, ovviamente quando alla qualifica non corrisponda l’effettivo svolgimento delle funzioni proprie della qualifica”.
 
Sulla base degli atti processuali i giudici di legittimità, ricalcando la decisione di primo e secondo grado, hanno dedotto che non risultava affatto provato il ruolo di mero prestanome dell’accusato.
In effetti, seppur è vero che il ricorrente risultava del tutto sconosciuto alla maggior parte dei clienti e dei fornitori della ditta, dall’esame di alcune testimonianze era stato ampiamente dimostrato che i due soggetti implicati, l’amministratore di fatto e quello di diritto, si erano spartiti i compiti di gestione dell’azienda, cosicché “mentre il primo si occupava degli aspetti meramente formali, quali i rapporti con le banche, la consegna delle fatture, la riscossione dei pagamenti e la gestione dei rapporti con lo studio di commercialisti che curava la tenuta delle scritture contabili, il secondo provvedeva a procacciare i clienti, realizzare i lavori commissionati e dirigere le maestranze”.
 
A parere dei giudici di legittimità, pertanto, i fatti emersi nel corso del procedimento erano sufficienti a dimostrare la partecipazione attiva del rappresentante “formale” alla gestione dell’impresa.
Tale circostanza rende l’amministratore di diritto corresponsabile per il reato di omessa presentazione della dichiarazione al pari dell’imprenditore “reale”.
 
Un altro importante principio ribadito nella sentenza di cui si parla attiene la verifica della sussistenza dell’elemento oggettivo di punibilità previsto dall’articolo 5 del Dlgs 74/2000, consistente nel superamento della soglia rappresentata dall’ammontare dell’imposta evasa.
Infatti, la norma prevedeva, nella versione applicabile ratione temporis alla fattispecie in commento, che era “punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte, quando l'imposta evasa e' superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte a €. 77.468,53” (a seguito della manovra di luglio 2011 la soglia di punibilità è stata abbassata a 30mila euro).
Il ricorrente lamentava che le adite Corti di merito, in entrambi i gradi di giudizio, avevano ignorato i costi afferenti ai ricavi ripresi a tassazione ai fini della determinazione del reddito imponibile e, quindi, della quantificazione dell’imposta evasa.
A parere del Collegio di legittimità, l’operato dei giudici è stato del tutto conforme alla legge in quanto la “determinazione delle imposte evase è legittimamente operata anche tenendo conto soltanto dei ricavi aziendali in assenza di elementi che facciano ritenere l’esistenza di costi aziendali ed essendo state utilizzate a tal fine le risultanze degli accertamenti eseguiti dal personale di polizia giudiziaria che aveva effettuato la verifica”.
 
Pertanto, come già chiarito dalla medesima Corte con la sentenza. 35858/2011, i costi possono incidere nella determinazione del reddito imponibile soltanto se debitamente contabilizzati e documentati e, quindi, entrati in possesso dell’ente verificatore nel corso delle attività di controllo.
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