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Giurisprudenza

Registro proporzionale alla sentenza
che dà il via libera all’indennizzo

La funzione dell’atto non è quella di remunerare la prestazione imponibile ai fini Iva, di conseguenza, viene a cadere il principio di alternatività tra i due tributi e la tassazione ad aliquota fissa

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La sentenza di condanna al pagamento dell’indennizzo per un arricchimento senza causa deve essere tassato con l’imposta di registro in misura proporzionale (3%) anche nel caso in cui all’origine dell’indennizzo vi sia una prestazione assoggettata a Iva.

Si è espressa in questo senso la Corte di cassazione con la sentenza n. 2040 del 25 gennaio 2022.

Alla base della pronuncia vi è un lodo arbitrale, non definitivo, mediante il quale un ente pubblico era stato condannato a pagare a una società un indennizzo per arricchimento senza causa in relazione ad alcuni lavori di manutenzione eseguita dalla stessa società su una strada e sull’impianto fognario.
Successivamente il lodo arbitrale era stato parzialmente annullato dalla Corte d’appello, la quale aveva altresì:

  • rideterminato l’esatto ammontare dell’indennizzo
  • condannato la società a restituire all’ente pubblico la somma in eccesso, nel frattempo già percepita.

In sede di registrazione della sentenza d’appello, l’amministrazione finanziaria aveva ritenuto applicabile l’imposta di registro in misura proporzionale.
La tesi delle parti in causa, secondo la quale l’imposta di registro doveva essere applicata in misura fissa, considerato che all’origine del pagamento dell’indennizzo vi era una prestazione di servizi rientrante nel campo di applicazione dell’Iva, era stata respinta dalla competente Commissione tributaria provinciale e accolta in sede di appello (Ctr Sicilia, sentenza n. 426/2016).
 
La Corte di cassazione, investita della questione a seguito del ricorso presentato dall’Agenzia delle entrate ha, innanzitutto, richiamato le disposizioni sull’imposta di registro fondamentali ai fini della soluzione del caso, e cioè:

  • l’articolo 8, primo comma, lettera b) della tariffa parte prima allegata al Testo unico sull’imposta di registro (Dpr n. 131/1986)
  • la nota II della stessa disposizione.

Dal combinato disposto di queste norme risulta che:

  • i provvedimenti dell’autorità giudiziaria recanti condanna al pagamento di somme o valori, sono soggetti a imposta proporzionale
  • qualora, però, la condanna attiene al pagamento di corrispettivi o prestazioni soggette a Iva, l’imposta di registro si applica in misura fissa, per effetto del principio di alternatività tra Iva e imposta di registro di cui all’articolo 40 del medesimo testo unico sopra richiamato. Questo principio ha lo scopo di evitare che una stessa prestazione subisca il prelievo per entrambi i tributi.

Come evidenziato nella motivazione della sentenza in commento, ai fini della soluzione del caso in esame, bisogna verificare se le somme oggetto della condanna siano effettivamente riferite a prestazioni soggette all’imposta sul valore aggiunto.
Al riguardo, dopo aver ricordato che costituiscono operazioni imponibili Iva le cessioni di beni e le prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni e le importazioni da chiunque effettuate, i giudici hanno richiamato l’orientamento della Corte di giustizia europea (sentenza 15 aprile 2021 C- 846/2019 e altre pronunce), in base al quale, ai fini dell’assoggettamento a Iva di un’operazione, deve esservi “…la sussistenza di un ‘nesso diretto’ tra servizio reso e controvalore ricevuto quale elemento che caratterizza ai fini IVA il corrispettivo di una prestazione, dovendosi accertare che le somme versate costituiscano l’effettivo corrispettivo di una specifica prestazione fornita nell’ambito di un rapporto giuridico in cui avviene uno scambio di reciproche prestazioni”.

Con riferimento al caso specifico i giudici hanno evidenziato che l’indennizzo di cui all’articolo 2041 del codice civile deriva da “un arricchimento ingiusto, in quanto ottenuto senza giusta causa, di colui che riceve un vantaggio patrimoniale con correlativo impoverimento di un altro soggetto, il quale, per tale ragione, subisce un pregiudizio economico”.

La disciplina dell’arricchimento senza causa, come indicato nella motivazione della sentenza in commento, ha una funzione recuperatoria, in quanto tende a evitare l’arricchimento a danno di altri, in modo da “eliminare l’iniquità prodottasi mediante uno spostamento patrimoniale privo di giustificazione”.
Alla luce di ciò i giudici della Cassazione hanno affermato che l’indennizzo di cui all’articolo 2041 cc “pur essendo correlato con la prestazione eseguita, non ne rappresenta il corrispettivo, ma ha appunto la funzione di reintegrare il patrimonio di colui che l’ha effettuata, in tal modo impoverendosi e nei limiti di tale impoverimento”.
Tale indennizzo, quindi, non tende a remunerare una prestazione, ma ha lo scopo di compensare il pregiudizio economico verificatosi a danno di un soggetto.
Tra le due prestazioni (pagamento dell’indennizzo da parte dell’arricchito e prestazione resa dal beneficiario dell’indennizzo) manca il sinallagma contrattuale tipico delle prestazioni soggette a Iva.
Pertanto, è stato ritenuto che la somma versata quale indennizzo per l’arricchimento senza giusta causa non deve essere assoggettata all’imposta sul valore aggiunto, ma deve scontare l’imposta di registro in misura proporzionale.
Conseguentemente è stato accolto il ricorso dell’Agenzia delle entrate e si è confermata la legittimità della tassazione operata sulla sentenza di condanna alla restituzione delle somme.

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