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Giurisprudenza

Rimborsi Iva a consorzi: va provata la natura commerciale dell’attività

Confermata la tesi del fisco sulle condizioni per detraibilità e restituzione dell’imposta sugli acquisti

pagamento in soldi
E’ legittimo il diniego del rimborso del credito Iva emergente dalla dichiarazione per l’anno 2003, opposto dall’Amministrazione finanziaria, nell’ipotesi in cui il contribuente non allega agli atti del processo la documentazione necessaria per valutare l’effettuazione di prestazioni di servizi soggette a Iva e la spettanza del rimborso ai sensi dell’articolo 30 del Dpr 633/1972.
Vale a dire, il rimborso non spetta qualora non è possibile conoscere la reale natura dell’attività economica svolta perché non è stata prodotta:
·   copia delle dichiarazioni relative al biennio precedente al 2003 e delle fatture attive eventualmente emesse nello stesso periodo
·   copia dell’ulteriore documentazione contabile, quale registri Iva e fatture, ed extra-contabile, come lo statuto del consorzio, da cui potere desumere il “ribaltamento” pro quota ai consorziati dei costi sostenuti per loro conto dall’ente collettivo nel periodo considerato.
 
E’ quanto deciso nel merito dalla Commissione tributaria regionale di Milano, in seguito all’appello proposto dall’ufficio di Monza 1 dell’Agenzia delle Entrate, con sentenza n. 70/50/09, recentemente passata in giudicato.
 
Il fatto
La fattispecie in esame riguarda le condizioni cui soggiace il diritto al rimborso dell’Iva pagata sugli acquisti da parte di un consorzio volontario costituito allo scopo di studiare, progettare e realizzare opere di urbanizzazione di terreni lottizzati dal Comune.
Più in generale e a monte, il caso pone alcuni spunti di riflessione sulla disciplina fiscale dei consorzi, soprattutto in tema di imposta sul valore aggiunto.
 
L’Agenzia delle Entrate di Monza ha negato al contribuente il rimborso dell’Iva per carenza del presupposto soggettivo dell’esercizio di impresa commerciale, ai sensi dell’articolo 4 del Dpr 633/1972.
Si sostiene infatti che il consorzio de quo è un ente non commerciale che non svolge attività esterna e che agisce in virtù di un mandato senza rappresentanza, ponendo in essere operazioni non qualificabili come commerciali.
 
La tesi dell’ufficio muove da una scrupolosa e articolata ricostruzione della natura giuridica del consorzio unitamente all’analisi dell’attività operativa da questo concretamente svolta.
Sul piano normativo (cfr articoli dal 2612 al 2615-bis del codice civile), si osserva innanzitutto che la disciplina civilistica impone ai consorzi esercenti attività d’impresa commerciale alcuni requisiti organizzativi minimi nonché altri adempimenti posti proprio a tutela dei terzi che operano con il consorzio.
I fatti emersi nel corso del giudizio dimostrano inequivocabilmente che il consorzio non era iscritto presso la Camera di commercio, né depositava la prescritta situazione consortile patrimoniale secondo le norme dettate per il bilancio di esercizio delle società per azioni. In più, il contratto consortile non aveva istituito e reso pubblico l’ufficio destinato a svolgere l’attività con i terzi.
Già tali circostanze depongono per l’inconfutabile qualificazione del consorzio come ente associativo esercente un’attività non commerciale.
 
A un’analoga conclusione si perviene mediante l’analisi della dottrina e della giurisprudenza (cfr, per tutte, Cassazione, sentenza n. 2877/2007).
E’ stato sostenuto infatti che i consorzi di urbanizzazione che hanno come scopo non solo il godimento della cosa comune ma anche e soprattutto la costituzione e la gestione delle opere di urbanizzazione, in considerazione dello scopo comune avente carattere non lucrativo e non imprenditoriale, sono qualificabili come associazioni non riconosciute.
Tratti caratterizzanti tale organizzazione sono il fine mutualistico e l’assenza dello scopo di lucro, connotati che mal si conciliano con “l’economicità” dell’organizzazione - intesa come necessaria adozione di modalità di gestione che tendano al pareggio dei costi con i ricavi e all’autosufficienza economica - requisito qualificante all’opposto gli enti commerciali.
 
Appurata la natura non commerciale del consorzio di cui si tratta, si delinea la disciplina Iva a questo applicabile:
  • le operazioni che l’ente compie non sono imponibili ai sensi dell’articolo 4, comma 4, del Dpr 633/1972, fatta eccezione per le operazioni di rilevanza esterna che hanno natura imprenditoriale, eventualmente esercitate
  •  in tali casi, il consorzio con attività interna che vuole detrarsi l’imposta assolta sugli acquisti fatti nell’esercizio di attività commerciali è obbligato - dall’articolo 19-ter, comma 2, Dpr citato - a gestire tali attività con contabilità separata da quella relativa all’attività istituzionale, da tenersi in modo conforme a quanto previsto negli articoli 20 e 20-bis del Dpr 600/1973. Il diritto alla detrazione non è pertanto riconosciuto in caso di omessa tenuta della contabilità separata.
 
Pertanto, diversa cosa è sostenere che, ferma restando l’estraneità di un’attività mutualistica alla nozione di attività commerciale ex articolo 2195 cc, l’ente non commerciale può in concreto svolgere anche attività d’impresa, queste ultime tuttavia soggette a imposte dirette e all’Iva, accanto a quella istituzionale.
Situazione non riscontrata nel caso di specie ove, nel triennio considerato, il consorzio non risulta avere effettuato alcuna operazione attiva imponibile, non spettando pertanto il diritto alla detrazione dell’imposta pagata a monte sugli acquisti.
 
Inoltre, i fatti di causa dimostrano che il consorzio ha agito sulla base di un mandato senza rappresentanza, essendo le fatture relative agli acquisti e alle prestazioni ricevute dal medesimo intestate allo stesso consorzio.
In questo caso, anche qualora si voglia sostenere che il consorzio svolga un’attività commerciale, negando l’evidenza della realtà processuale, quest’ultimo, agendo come mandatario senza rappresentanza, sarebbe obbligato a ribaltare pro quota tra i consorziati gli oneri sostenuti, emettendo le relative fatture soggette a Iva per prestazioni di servizi. Più precisamente, dovrebbero essere fatturate ai consorziati tutte le spese che sono state necessarie a dare seguito alle commesse come i costi di acquisto di materie prime, di servizi esterni resi a terze imprese o alle imprese consorziate e l’eventuale costo del personale utilizzato per l’esecuzione delle commesse (vedi, per tutte, la risoluzione ministeriale n. III-7-259/93 dell’11 agosto 1994: “La fatturazione, in queste ipotesi, deve essere effettuata da parte di terzi per le forniture di beni e servizi nei confronti del consorzio medesimo, il quale provvederà, a sua volta, a riaddebitare agli utenti dei servizi i rispettivi corrispettivi dovuti, comprendenti sia gli oneri sostenuti che le proprie competenze, mediante emissione di fatture soggette ad imposta nei confronti dei singoli consorziati”).
Situazione, come già detto, non verificatasi nella fattispecie.
 
Quanto sopra, ad avviso dell’ufficio, legittima ampiamente il diniego al rimborso dell’Iva pagata dal consorzio istante.
 
La decisione dei giudici
La commissione tributaria della Lombardia conferma la regolarità dell’operato dell’ufficio di Monza non ravvisando la presenza di alcuna delle condizioni previste dall’articolo 30 per la spettanza del rimborso.
Difatti, i giudici non hanno potuto valutare la sussistenza delle eccedenze detraibili risultanti dalle dichiarazioni dei due anni precedenti, condizione richiesta dal comma 4 dell’articolo 30, così come l’eventuale emissione di fatture attive nel periodo 2000-2003.
Aderendo in pieno alla tesi dell’Amministrazione finanziaria, la Commissione ha tentato di riscontrare il ribaltamento pro quota ai consorziati degli oneri sostenuti dagli anni dal 2000 al 2003 sui quali il contribuente ha pagato l’Iva richiesta a rimborso.
Tuttavia, al proposito, più volte il Collegio ha osservato che non risultano prodotti in giudizio né i registri Iva vendite di detti periodi, né le copie delle fatture, né le copie delle dichiarazioni annuali anteriori a quella del 2003. Né risulta prodotta copia dello statuto del consorzio, ma soltanto quella dell’atto costitutivo.
 
Un aspetto della sentenza che si ritiene di dovere sottolineare riguarda l’indagine che i giudici hanno dovuto condurre per comprendere quale sia stata l’attività principale del consorzio. Istruttoria che non poteva che essere svolta sul piano documentale, partendo per prima dall’analisi dell’oggetto esclusivo o principale determinato in base alla legge, per poi passare all’esame (formale) del contenuto dello statuto e a quello, sostanziale, dell’attività di fatto svolta.
La sentenza, quindi, rimarca l’importanza dell’individuazione delle attività economiche e non concretamente svolte dall’ente, resa nella specie non completamente fattibile per la nota carenza documentale, al fine di potere applicare la corretta disciplina fiscale generale e, in particolare, quella sull’imposta sul valore aggiunto.
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