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Giurisprudenza

Il rimborso dell’eccedenza Iva
sconta le norme sulla prescrizione

Il diritto si estingue decorsi dieci anni dal termine imposto al Fisco per l’adempimento. La semplice richiesta di chiarimenti sull’istanza è irrilevante ai fini dell’interruzione

lucchetto
Le regole civilistiche sulla prescrizione si applicano anche ai rimborsi Iva richiesti tramite dichiarazione annuale. È tardiva la nota con cui il contribuente sollecita l’Amministrazione al pagamento delle somme, se è inviata dopo 10 anni dalla presentazione della dichiarazione stessa. Questo il principio di diritto enunciato nell’ordinanza della Cassazione n. 9816 del 14 giugno.
 
I fatti di causa
Il curatore di una società cooperativa in fallimento, tramite dichiarazione dell’11 febbraio 1994, presentava richiesta di rimborso per l’Iva relativa all’anno d’imposta 1993.
L’Amministrazione finanziaria, riscontrate delle irregolarità nell’istanza, inviava una richiesta di chiarimenti al curatore. A tale richiesta, però, non corrispondeva alcun riscontro.
Dopo oltre dieci anni dalla presentazione della dichiarazione (luglio 2005), la società inviava una nota di sollecito all’Agenzia delle Entrate per richiedere nuovamente il rimborso.
L’Agenzia respingeva la nuova istanza eccependo l’estinzione del diritto di credito per intervenuta prescrizione.
 
Contro il silenzio rifiuto, la contribuente agiva in giudizio e, la Commissione tributaria provinciale prima, e quella regionale poi, si pronunciavano riconoscendo la spettanza del rimborso.
In particolare, la Ctr riteneva che la disciplina della prescrizione non potesse essere applicata ai rimborsi Iva nel caso in cui il diritto, come nel caso di specie, fosse stato esercitato nei termini di legge da parte del contribuente. I giudici di merito attribuivano altresì all’inerzia dell’ufficio la colpa del mancato rimborso, in quanto questi, non aveva mai esercitato i poteri di controllo, verifica e accertamento a esso spettanti.
 
Contro quest’ultima pronuncia, l’Agenzia proponeva ricorso per cassazione.
 
Il giudizio e la pronuncia
La Suprema corte ha cassato la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, ha rigettato il ricorso del contribuente contro il silenzio-rifiuto.
I giudici di legittimità hanno accolto il motivo principale di doglianza dell’Agenzia per il quale la Ctr avrebbe errato nel ritenere non decorso il tempo utile alla prescrizione del diritto corrispondente, nel caso di specie, al periodo intercorrente tra la presentazione della dichiarazione e l’invio della nota di sollecito.
La Corte regolatrice ha precisato che il dies a quo da cui far decorrere la prescrizione fosse individuabile nella data dell’11 maggio 1994. Ciò in quanto, secondo l’articolo 38-bis, comma 1, in vigore all’epoca dei fatti (e pressoché analogo a quello tuttora vigente), trovava applicazione la regola secondo cui i rimborsi avrebbero dovuto essere effettuati entro tre mesi dalla scadenza del termine di presentazione della dichiarazione.
Ai fini interruttivi della prescrizione, alcuna rilevanza ha poi assunto l’eventuale richiesta di chiarimenti inviata, nelle more, dall’Amministrazione al contribuente.
 
Considerato quindi il predetto termine iniziale e applicando il decorso decennale della prescrizione previsto dall’articolo 2946 codice civile, il diritto si sarebbe estinto nell’anno 2004 ossia antecedentemente alla nota di sollecito recapitata dal contribuente.
 
Ulteriori considerazioni
La sentenza in esame, inserendosi nel solco di altri precedenti giurisprudenziali (Cassazione 27948/2009 e 6538/2004), ritiene applicabile anche ai rimborsi Iva previsti dal citato articolo 38-bis le regole civilistiche sulla prescrizione.
In particolare, l’articolo 2946 cc (prescrizione ordinaria) prevede che i tutti i diritti, compreso quindi il diritto di credito, si prescrivano con il decorso di dieci anni.
Per quanto riguarda il dies a quo, esso coinciderebbe con il termine ultimo entro cui l’Amministrazione avrebbe dovuto dare esecuzione al rimborso. Soltanto da questo momento, infatti, il diritto al pagamento si “consolida”, divenendo liquido, e sopratutto esigibile da parte del contribuente.
 
Molto importante è anche la puntualizzazione sugli atti interruttivi della prescrizione. Sul punto, la Cassazione, richiamando una precedente pronuncia, avalla l’orientamento secondo cui non basta una richiesta di chiarimenti o documenti da parte dell’Amministrazione per interrompere la prescrizione. Perché ciò avvenga, occorre necessariamente “… un atto o un fatto che implichi, anche tacitamente ma inequivocabilmente, l'ammissione dell'esistenza del debito e sia incompatibile con la pretesa fatta valere” (Cassazione 18929/2011).
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