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Giurisprudenza

Ristrutturazione del debito:
senza intesa, niente omologa forzosa

L’Agenzia delle entrate ha spiegato in modo ampio e dettagliato le ragioni per le quali ha ritenuto non conveniente la proposta e lacunosa l’attestazione del professionista incaricato dalla proponente

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Non si può chiedere al Tribunale di omologare coattivamente un accordo di ristrutturazione, auspicato dal contribuente, ma non sottoscritto né dall’Amministrazione finanziaria, né da altri creditori. Il cram down si giustifica solo quando il rifiuto da parte dell’Amministrazione sia irragionevole e quando non vengono spiegate le ragioni della mancanza di convenienza rispetto all’alternativa fallimentare.

La Corte d’appello di Milano, con decreto del 23 febbraio 2023, ha rigettato il reclamo di una società che pretendeva l’omologa forzosa (cram down) di un accordo di ristrutturazione del debito, nonostante la (motivata) opposizione della direzione provinciale di Monza e della Brianza dell’Agenzia delle entrate.
Secondo la società sussistevano tutte le condizioni per l’operatività del cram down, in base al quale il Tribunale può sostituirsi al creditore pubblico al ricorrere di determinate circostanze, ossia:

  1. quando l’Amministrazione finanziaria non presta adesione a una proposta di transazione fiscale formulata nei suoi confronti secondo le modalità prescritte dall’articolo 183-ter della legge fallimentare
  2. quando tale mancata accettazione non permette il raggiungimento della soglia del 60% dei crediti
  3. quando la proposta è conveniente, in quanto consente un soddisfacimento migliore di quello che deriverebbe dalla liquidazione del patrimonio del debitore.

Il Tribunale di Monza rigettava tuttavia la richiesta di omologa “forzosa”, rilevando che, in assenza di un accordo depositato dalla società, non poteva “ritersi perfezionata la fattispecie di cui all’art.182 bis L.F. che impone appunto il “deposito di un accordo” di cui l’imprenditore in stato di crisi chiede l’omologazione”, mancando perciò “la precondizione per l’invocata operatività del cd. cram down”.
Sotto diverso profilo, il Tribunale evidenziava poi la lacunosità della relazione del professionista attestatore in punto di “convenienza del trattamento proposto rispetto alla liquidazione giudiziale” e la ragionevolezza del rifiuto opposto dal creditore pubblico all’adesione alla proposta di accordo.

Il decreto veniva impugnato dalla società. Ma la Corte d’appello confermava la decisione di primo grado, ribadendo, in primo luogo, che la società non aveva in realtà concluso alcun accordo, né con l’Agenzia delle entrate, né con altri creditori, non rientrando quindi la fattispecie nel “modello” di riferimento (cfr, Corte d’appello di Firenze, decreto del 14 ottobre 2022 – vedi articolo “Cram down senza avallo del Fisco, con soli mini creditori impraticabile”), come anche confermato dal chiaro tenore letterale della norma, che disciplina appunto gli “accordi di ristrutturazione dei debiti”, prevedendo, tra l’altro, che l’imprenditore che ne domanda l’omologazione debba depositarli e iscriverli nel Registro delle imprese.

In secondo luogo, secondo la Corte d’appello di Milano, non vi era alcun “interesse concorsuale” in funzione del quale la volontà del Fisco dovesse essere sacrificata alla volontà del debitore, anche considerato che, nella specie, la proposta formulata dalla società non coinvolgeva gli altri creditori, ma mirava esclusivamente a imporre all’Amministrazione finanziaria le proprie condizioni.
E ciò era inammissibile, poiché, come sottolinea la Corte, la diversità di trattamento che la norma riserva all’Amministrazione finanziaria si giustifica proprio in considerazione della natura del creditore e del credito che appartiene alla collettività e deve essere gestito nel migliore dei modi, avendo riguardo all’effettiva convenienza della proposta, evitando che un approccio eccessivamente burocratico nuoccia alla ristrutturazione dei debiti e comprometta l’interesse degli altri creditori concorsuali e, se prevista, la salvaguardia della continuità aziendale.

Quindi, la Corte ribadisce come non vi sia alcuna irragionevolezza nel consentire al Tribunale di sostituirsi all’Erario nella valutazione sulla convenienza della proposta e nell’esprimere l’assenso solo ove esista un concreto “interesse concorsuale”: in caso contrario, infatti, non si comprenderebbe la ragione per la quale l’interesse del creditore pubblico debba essere recessivo rispetto a quello del debitore proponente.

In sostanza, concludono i giudici, il cram down si giustifica solo quando il rifiuto opposto dall’Amministrazione finanziaria alla proposta appaia irragionevole e non motivato.
Tale interpretazione, del resto, è coerente con la ratio della previsione normativa, quale si ricava dalla relazione di accompagnamento al Dlgs n. 14/2019, che è quella “di superare ingiustificate resistenze alle soluzioni concordate …” che si pongano in contrasto con il principio del buon andamento della Pubblica amministrazione stabilito dall'articolo 97 della Costituzione, con la conseguenza che, laddove il diniego sia giustificato e motivato, l’interesse pubblico si rivela in realtà ben tutelato e certamente non soccombente.
Come era appunto avvenuto nel caso in esame, atteso che l’Agenzia delle entrate aveva spiegato in modo ampio e dettagliato le ragioni per le quali aveva ritenuto non conveniente la proposta e lacunosa l’attestazione del professionista incaricato dalla proponente.

In definitiva, conclude la Corte d’appello, come efficacemente sottolineato dal primo giudice, il ricorso all’accordo di ristrutturazione, in questi termini, diventa “una distorsione degli strumenti offerti per la regolamentazione della crisi”. 

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