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Giurisprudenza

Scambi Ue, per l’esenzione Iva
va attivata l’apposita procedura

Il contribuente ha l’onere di provare l’esistenza dell’operazione richiedendo all’Amministrazione finanziaria la validità del numero di identificazione del cessionario

scambio
Per l’esenzione Iva di un’operazione Ue, il contribuente deve richiedere all’Amministrazione fiscale il numero di identificazione attribuito al cessionario. In assenza di tale adempimento, l’ufficio può ritenere che lo scambio abbia carattere nazionale e procedere al recupero dell’imposta.
Lo ha stabilito la Cassazione, con l’ordinanza 3167 del 29 febbraio.

I fatti
L’Agenzia delle Entrate, a seguito di indagini della Guardia di finanza, ha notificato a una società un avviso di accertamento Iva, Irpeg, Irap, anno d’imposta 2000, ritenendo che la contribuente si era avvalsa di tre fatture per operazioni intracomunitarie (cessione di beni in esenzione Iva) ritenute inesistenti per difetto della prova dell’avvenuta consegna dei beni.
Diversamente dal giudice di primo grado che ha annullato l’atto, la Commissione tributaria regionale ha riformato la sentenza di primo grado, ritenendo che la totale mancanza di prova in ordine all’avvenuta consegna avvalorava la presunzione che i beni non avessero mai raggiunto la sede della cessionaria, e rilevando che la società non aveva chiesto all’Amministrazione finanziaria conferma del numero identificativo attribuito alla stessa cessionaria.
Di conseguenza, poiché la società su cui gravava l’onere di provare l’esistenza dei presupposti di non imponibilità (articolo 41, Dl 331/1993) non aveva assolto a tale onere, l’esenzione d’imposta doveva ritenersi disconosciuta e l’obbligo di fatturazione confermato.

Dello stesso avviso i giudici di legittimità, i quali hanno ribadito che, “per accedere al regime esente,… non basta indicare il numero di identificazione attribuito dallo Stato di appartenenza nella documentazione relativa allo scambio intracomunitario, ma occorre anche che il soggetto attivo dello scambio dia impulso ad una apposita procedura di verifica mediante richiesta al Ministero della conferma della validità del numero di identificazione attribuito al cessionario” (Cassazione 3167/2012).

Osservazioni
Partendo dal principio generale secondo cui l’onere di provare la sussistenza dei presupposti di fatto che legittimano la deroga al normale regime impositivo è a carico di chi invoca la deroga agevolativa, la Corte è pervenuta alla conclusione che è carico del contribuente provare la sussistenza delle condizioni di esenzione Iva previste dall’articolo 50, commi 1 e 2, del Dl 331/1993 per le cessioni intracomunitarie. In particolare, la norma prevede che tali cessioni sono effettuate senza applicazione d’imposta nei confronti dei cessionari che abbiano comunicato il numero di identificazione attribuito dallo Stato di appartenenza.

Per accedere al regime esente, tuttavia, non basta l’indicazione di tale numero nella documentazione relativa allo scambio intracomunitario, ma è necessario altresì che il soggetto attivo dello scambio abbia dato impulso all’apposita procedura di verifica.
A tale riguardo, l’articolo 50 stabilisce uno stretto legame di subordinazione tra la richiesta di conferma dei dati identificativi del soggetto comunitario (articolo 50, comma 2) e la possibilità di effettuare la cessione senza l’applicazione dell’imposta (articolo 50, comma 1), che risponde alla necessità di avere certezza dell’esistenza che il cessionario comunitario sia soggetto passivo di imposta.
Diversamente, “in assenza di tali adempimenti, legittimamente l’Ufficio finanziario può ritenere che lo scambio abbia carattere nazionale e procedere al recupero dell’IVA, restando onere del contribuente provare la sussistenza dei presupposti di fatto che giustificano la deroga al normale regime impositivo” (Cassazione 12455/2007, 3603/2009, 2227/2011 e 20575/2011).

Di certo, la semplice omissione nella fattura dell’indicazione del numero identificativo Iva dell’acquirente comunitario così come le mere irregolarità formali delle fatture non pregiudicano il trattamento di non imponibilità della cessione, purché sussistano i presupposti richiesti dalla legge (Cassazione 12455/2007). Se, infatti, il contribuente dimostra che i rapporti commerciali con soggetti comunitari siano stati effettivamente tenuti e correttamente eseguiti in base alla prova documentale e contabile, l’eventuale errata indicazione in fattura della partita Iva del cessionario Ue, da parte del soggetto italiano, non può determinare la riqualificazione dell’operazione, da cessione intracomunitaria non imponibile a operazione Iva.

Tuttavia, se il cedente nazionale non si è ragionevolmente accertato del permanere dell’effettiva attività del destinatario (Cassazione 3603/2009) e non ha controllato la correttezza dei dati identificativi fornitigli dall’acquirente (risoluzione 25/1997), il regime dell’esenzione non opera.
Proprio ciò che si verifica, qualora non venga seguita la procedura dell’articolo 50, Dl 331/1993, in assenza di prova da parte del contribuente.

E la prova non può consistere in semplici affermazioni. Secondo i giudici di legittimità, infatti, per dimostrare l’esistenza di operazioni intra Ue e il conseguente diritto alla non imponibilità Iva, non basta asserire la buona fede della società e la sua estraneità alle condotte illecite dei terzi. Né è sufficiente trascrivere, nelle memorie, un’asserzione dell’ufficio che non potrebbe costituire in alcun modo supporto probatorio; infatti, “non è neppure un’ammissione, dovendola intendere (per come trascritta) come una semplice confutazione delle asserzioni altrui” (Cassazione 3167/2012).

La prova, quindi, gioca un ruolo rilevante e, come precisato dalla Corte, può essere fornita con ogni mezzo, purché essa abbia carattere di certezza e incontrovertibilità (ad esempio, l’attestazione di pubbliche amministrazioni del Paese di destinazione dell’avvenuta presentazione delle merci in dogana, oppure idonei documenti di trasporto - Ctr Marche 142/1/2010); carattere assente nei documenti di origine privata (quali, ad esempio, la documentazione bancaria dell’avvenuto pagamento) che, quindi, non possono costituire prova idonea allo scopo (Cassazione 3603/2009).
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