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Giurisprudenza

La scarsa puntualità dei meridionali
non assurge a “esperienza comune”

Il concetto di fatto notorio, che libera il contribuente dall’onere della prova, va interpretato con rigore, non potendosi applicare a valutazioni o a eventi solo probabili

scena tratta dal film "Scusate il ritardo"
Il fatto notorio, derogando al principio dispositivo e a quello del contraddittorio e dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti da esse non vagliati e controllati, deve essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile e incontestabile.
È, dunque, viziata la pronuncia di merito che ritiene superata la presunzione di maggiori ricavi fondata sui parametri, in base alla circostanza che i clienti meridionali non sempre corrispondono onorari conformi alle tabelle professionali. Quest’ultima non è annoverabile, infatti, tra le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza.
Lo ha affermato la Cassazione, con la sentenza 22950 dello scorso 29 ottobre che ha, quindi, confermato l’orientamento restrittivo della giurisprudenza di legittimità in merito al concetto di “fatto notorio”.
 
La vicenda processuale
L’Agenzia delle Entrate ricorreva per cassazione avverso una sentenza della Ctr Campania, che aveva dichiarato l’illegittimità di un avviso di accertamento emesso sulla base dei parametri: secondo i giudici campani, infatti, il contribuente aveva prodotto elementi di prova idonei a confutare le elaborazioni statistico-matematiche dei parametri. Inoltre, la Ctp (che aveva rigettato il ricorso del contribuente) non avrebbe adeguatamente valutato la “nozione di fatto” della scarsa puntualità nei pagamenti, nella zona di operatività del professionista, da parte dei clienti.
Con il ricorso, l’Agenzia denunciava la violazione dell’articolo 115, comma 2 cpc, sottolineando come era stata erroneamente elevata al rango di “fatto notorio” una circostanza generica, priva di certezza oggettiva nella percezione della collettività.
 
La pronuncia
La Cassazione, con la pronuncia in commento, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria, cassando con rinvio la sentenza impugnata.
Ad avviso della Corte suprema, la sentenza della Ctr non si era uniformata al costante orientamento della giurisprudenza di legittimità (cfr Cassazione, nn. 2808/2013, 16959/2012, 23978/2007 e 24959/2005), secondo cui la nozione di “comune esperienza” (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo e al contraddittorio, va intesa in senso rigoroso e restrittivo, cioè “come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile; di conseguenza, non si possono reputare rientranti nella nozione di fatti di comune esperienza, intesa quale esperienza di un individuo medio in un dato tempo e in un dato luogo, quegli elementi valutativi che implicano cognizioni particolari, o anche solo la pratica di determinate situazioni, né quelle nozioni che rientrano nella scienza privata del giudice, poiché questa, in quanto non universale, non rientra nella categoria del notorio”.
 
La circostanza per cui “i clienti meridionali non sempre corrispondono onorari conformi alle tabelle professionali”, oltre a contenere in sé elementi di contraddittorietà e incertezza, non rappresenta un fatto oggettivo e universalmente percepito dalla collettività, in grado di costituire una prova contraria al conseguimento di maggiori ricavi sulla base delle risultanze dei parametri: per questo, non può costituire un elemento fondante di una decisione giudiziale, in deroga al principio dispositivo.
 
Ulteriori osservazioni
L’articolo 115 del codice di procedura civile (sulla disponibilità delle prove) prevede, al secondo comma, che il giudice può porre a fondamento della sua decisione “le nozioni di fatto che rientrano nella comune esperienza”.
Il concetto di fatto notorio, per la sua portata derogatoria al principio dispositivo (esonera infatti la parte che lo allega dal relativo onere probatorio), è stato da sempre oggetto di una rigorosa e stretta interpretazione da parte della giurisprudenza della Cassazione, che lo ha ravvisato solamente in quei fatti connotati da certezza e indubitabilità, escludendo che possa applicarsi a elementi valutativi o a eventi “solamente” probabili oppure oggetto della mera conoscenza del singolo giudice.
 
Tale principio vale anche in tema di accertamenti standardizzati (basati sui parametri o sugli studi di settore) che (per espressa e consolidata posizione sia della giurisprudenza di legittimità sia della prassi dell’Amministrazione finanziaria) devono basarsi su presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza nasce solo in seguito al contraddittorio con il contribuente, da attivare obbligatoriamente.
In questa sede, il contribuente ha l’onere di dimostrare, senza limitazione di mezzi e contenuto, la sussistenza di condizioni che giustifichino l’esclusione dell’impresa dalle condizioni di normalità cui soltanto si applicano tali strumenti.
 
L’ufficio, dal canto suo, nelle motivazioni dell’avviso di accertamento, non solo deve dare dimostrazione della concreta applicabilità al caso concreto dello standard prescelto, ma deve anche esplicitare le ragioni per le quali ritiene non condivisibili le contestazioni sollevate dal contribuente.
L’esito del contraddittorio non condiziona, comunque, le valutazioni del giudice o le strategie difensive del contribuente, che non risentono di alcuna limitazione di contenuto. Sotto quest’ultimo aspetto, il giudice non può svolgere una funzione suppletiva, esonerando le parti dai rispettivi oneri probatori, se non quando ravvisi l’esistenza di un fatto notorio i cui contorni sono stati fissati in modo rigido dalla Cassazione.

A dimostrazione di ciò, in tema di redditometro, si ricorda la recente sentenza 14063/2014, con cui la Cassazione ha ritenuto che una mera prassi familiare, come quella consistente nella liberalità dei genitori nei confronti dei figli, rappresenta un evento soltanto probabile, come tale da escludere dalla nozione di “fatto notorio” e, quindi, in base al principio dispositivo, da provare da parte di chi (il contribuente) ne invoca l’applicazione, quale fatto impeditivo della maggiore pretesa fiscale.
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