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Giurisprudenza

Scopo raggiunto, atto sanato? Il “conflitto” prosegue

Passo indietro della Cassazione rispetto alle conclusioni cui erano giunte le sezioni unite nel 2004

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Sarebbe stato giusto pensare che con la pronuncia a sezioni unite 19854 del 5 ottobre 2004 la Cassazione avesse messo un punto definitivo alla questione dell’applicazione dell’articolo 156 del codice di procedura civile ai vizi di notificazione degli atti tributari. In quella occasione, la Corte, ricomponendo un lungo conflitto originatosi all’interno delle sue sezioni semplici, divise tra tesi favorevoli e tesi contrarie alla estensione della regola del raggiungimento dello scopo agli atti tributari, pur negando correttamente che l’atto impositivo costituisca un atto processuale o pre-processuale (seconda la vecchia teoria denominata provocatio ad opponendum che tradizionalmente, come si vedrà, deponeva per una indiscussa applicazione dell’articolo 156), concludeva nel senso che la proposizione del ricorso da parte del contribuente sana il vizio di notificazione dell’atto.

Tale conclusione aveva trovato conforto in due distinte motivazioni, in parte tra loro confliggenti; in primis, la valenza generale del principio del raggiungimento dello scopo, di cui, per l’appunto, all’articolo 156 Cpc, in secondo luogo, la possibilità di applicare direttamente la citata norma, pur dettata per gli atti processuali, anche al procedimento di notificazione degli atti tributari sostanziali, per effetto del rinvio alle norme del codice di procedura civile contenuto nell’articolo 60 del Dpr 600/1973.

Con la pronuncia 10447 del 23 aprile 2008, invece, la Cassazione fa un passo indietro rispetto alle conclusioni raggiunte dalle sezioni unite e sulla scorta del carattere “solo” processuale della disposizione dell’articolo 156 Cpc ne ha negato l’applicazione agli avvisi di accertamento, in quanto atti amministrativi, espressivi della pretesa fiscale, la cui notificazione “non attiene all’avvio della fase giurisdizionale contenziosa” (affermazione, quest’ultima, che riprende letteralmente alcuni precedenti di data anteriore alla citata pronuncia delle sezioni unite).

La recente sentenza, in altre parole, riprendendo, nelle conclusioni, un orientamento diffuso prima dell’intervento delle sezioni unite, in sostanza costituisce un ritorno al passato, pur basato su un’affermazione di partenza, la natura sostanziale dell’atto impositivo, che oggi può considerarsi assolutamente pacifica. La portata della pronuncia, pertanto, va correttamente rimediata alla luce delle ragioni che ci sembrano deporre per la contraria soluzione e che erano state individuate già dalla medesima Cassazione nella citata sentenza 19854/2004.

La sentenza 10447/2008: corretta la premessa in ordine alla natura sostanziale degli atti impositivi
Come anticipato in parte nelle premesse, nella sentenza 10447/2008 la Cassazione parte da una condivisibile premessa che, autorevolmente sostenuta da sempre dalla dottrina maggioritaria, ha trovato conferma nella pronuncia delle sezioni unite 19854/2004, vale a dire quella secondo cui l’atto impositivo tributario, in quanto espressivo della pretesa avanzata dall’Amministrazione, all’esito di un vero e proprio procedimento amministrativo, è atto amministrativo sostanziale e non un atto processuale.

In tal modo, anche la giurisprudenza (pur con qualche successiva oscillazione) sembra aver respinto la nota tesi denominata provocatio ad opponendum, tesi minoritaria, pur se autorevole, secondo cui l’avviso di accertamento (al pari, in verità, di qualsiasi altro atto impositivo) è un mero atto processuale, rappresentando, cioè, quella “domanda giudiziale” (tipica del processo civile) con cui l’Amministrazione/attrice cita in giudizio il convenuto/contribuente.

Non è questa la sede per affrontare tutte le conseguenze che derivano dalla qualificazione in termini meramente processuali degli atti di accertamento; solo per fare qualche esempio, essa conduce alla libera modificabilità della domanda, ossia alla possibilità, per l’Amministrazione, di modificare nel corso del giudizio i motivi fondanti la pretesa o, ancora, giustifica l’irrilevanza dei vizi formali dell’atto, in quanto sanabili nel corso del processo, come una certa distribuzione dell’onere probatorio tra le parti.

Più che su questi aspetti, ai fini che interessano, giova puntare l’attenzione su un altro profilo; in particolare, su come da una ricostruzione in termini eminentemente processuali discenda una pacifica applicazione a tali atti tributari delle regole del codice di procedura civile, in primo luogo di quelle riferite alla sanatoria di cui all’articolo 156 Cpc.
Non v’è dubbio che norme come quella appena citata rispondono bene alla logica degli atti processuali per i quali sono state pensate in quanto, limitando la portata invalidante di alcuni vizi (di alcune “nullità processuali”), consentono al giudizio di andare avanti fino al suo naturale epilogo, la pronuncia del giudice.
Esiste, infatti, un indiscutibile favor del legislatore del codice di procedura civile in tal senso, desumibile, oltre che dall’articolo 156, anche da altre analoghe disposizioni, volte a evitare che il processo si arresti per vizi degli atti processuali, precludendo al giudice di pronunciarsi sul rapporto sottostante alla domanda di parte.

In altri termini, la circostanza che lo scopo dell’atto sia stato raggiunto è considerata, nell’ottica processuale, condizione necessaria e sufficiente a evitare un arresto del giudizio; in tal senso, la costituzione della parte, in presenza di un vizio di notificazione dell’atto processuale, è considerata l’ipotesi più emblematica e rappresentativa del raggiungimento dello scopo e della sanatoria del relativo vizio.

Altra e più complessa questione è cosa debba intendersi per scopo dell’atto e quando, al di fuori del caso scolastico della costituzione in giudizio, esso può considerarsi raggiunto.
L’applicazione letterale della regola dell’articolo 156 Cpc imporrebbe una difficile indagine, tanto sull’individuazione dello scopo dei singoli atti processuali quanto sulla effettiva intenzione delle parti. In tal senso, la dottrina processualistica ha elaborato un diverso, più agevole e condivisibile criterio secondo cui lo scopo dell’atto può considerarsi raggiunto tutte le volte in cui la parte che potrebbe far valere il vizio compie l’atto o tiene il comportamento che nella normale sequenza segue quello viziato.

La regola sembra trovare applicazione, in altre parole, in tutti i casi in cui all’atto viziato segue quello che, nella normale e fisiologica sequenza procedimentale o processuale delineata dalla legge, rappresenta l’adempimento di un correlato obbligo, l’attuazione di un conseguente onere o l’esercizio del connesso potere.
È chiaro che, alla luce dell’inquadramento preminentemente processuale della regola che abbiamo finora proposto, in presenza di un atto amministrativo sostanziale, come quello impositivo, non possono valere analoghe giustificazioni a fondamento della possibilità di applicare l’articolo 156 e la peculiare sanatoria costituita dall’avvenuto raggiungimento dello scopo ivi previsto.

Tuttavia, prima di concludere nel senso della sentenza 10447/2008, ossia nel senso della impossibilità di invocare questa forma di sanatoria in relazione ai vizi della notificazione degli atti impositivi, occorre verificare che l’applicazione della disposizione processuale sopra richiamata non possa essere sostenuta sulla base di altre argomentazioni.

Le argomentazioni a favore dell’applicazione dell’articolo 156 agli atti impositivi ancorché atti sostanziali: conclusioni in ordine al passo indietro della sentenza 10447/2008
Riprendendo il ragionamento delle sezioni unite della Cassazione del 2004, a favore dell’applicazione dell’articolo 156 è possibile individuare, almeno in astratto, due diverse ragioni, delle quali solo una pienamente condivisibile.

In primo luogo, in un passaggio argomentativo della pronuncia 19854/2004, si legge che il raggiungimento dello scopo ha la valenza o il rango di “principio generale”, come tale applicabile anche al di là della sfera degli atti processuali per i quali esso è stato espressamente codificato.
In tal senso, la natura non processuale dell’avviso di accertamento non osterebbe all’applicazione della regola in esame, proprio perché espressione di un principio applicabile al di là del ristretto novero di atti per i quali è previsto.

Questa affermazione pone, in verità, qualche dubbio.
E’ stato già detto che una forma di sanatoria come quella fondata sul raggiungimento dello scopo trova la sua ragion d’essere, nel campo degli atti processuali, nell’esigenza, cara al legislatore del settore, di evitare che ogni vizio si trasformi in una causa ostativa alla prosecuzione del giudizio, preclusiva della pronuncia del giudice quale risultato “ultimo” cui tende il processo.
Questa ratio rimane invece difficilmente adattabile al campo degli atti amministrativi sostanziali, per i quali non sono irrilevanti, ai fini della tutela del destinatario, né le modalità secondo cui si sono formati né quelle con cui sono stati portati a conoscenza.

Tra l’altro, secondo l’insegnamento della teoria generale, le forme di sanatoria, intese quali modalità di eliminazione del vizio o di mera neutralizzazione delle relative conseguenze, possono operare solo in quanto espressamente previste dalla legge.
È la legge sola, infatti, che può prevedere un determinato fatto, atto o evento quale elemento sanante di una fattispecie viziata; né l’interprete può ricavare dalla previsione di una regola specifica, operante in un determinato settore, un principio di rango generale, applicabile al di là dei casi espressamente previsti.

Per queste ragioni, deve ritenersi che l’articolo 156 Cpc non sia espressione di una regola di ampio respiro, bensì codifichi un principio applicabile solo alle ipotesi espressamente previste (gli atti processuali) ovvero ai diversi casi in cui esso venga espressamente richiamato.

Quest’ultima osservazione consente di introdurre la seconda argomentazione utilizzata dalla Cassazione nella “storica” sentenza a sezioni unite per giustificare l’applicazione dell’articolo 156 e che, in verità, appare la strada più corretta per riconoscere l’estendibilità della disposizione al procedimento di notificazione degli atti tributari.

In un altro passaggio argomentativo della pronuncia, le sezioni unite (in parte contraddicendo la precedente affermazione secondo cui la regola in esame è espressione di un principio generale) hanno evidenziato che la disciplina relativa alle notificazioni degli avvisi di accertamento (in particolare, l’articolo 60 del Dpr 600/1973) contiene un esplicito rinvio alle regole sulla notificazione previste dalle norme processualistiche.

Pur, quindi, nel contesto di una disciplina complessa fondata su rinvii ed eccezioni tipicamente fiscali, l’articolo 156 viene richiamato in materia tributaria a proposito del procedimento di notificazione degli atti; in tal senso, infatti, il rinvio alle norme del codice di procedura civile non deve intendersi solo quale rinvio alle “modalità” della notificazione, bensì quale rinvio a tutto il relativo regime, comprensivo, cioè, anche delle regole relative alle eventuali nullità e alle loro sanatorie.

Sulla base di questa osservazione, è agevole constatare che, ancorché previsto solo per gli atti processuali, il principio del raggiungimento dello scopo trova correttamente applicazione anche per i vizi della notificazione degli atti tributari, per effetto del richiamo espresso contenuto nella disciplina fiscale.

In tal senso, l’iter logico posto alla base della sentenza 10447/2008, pur riprendendo argomentazioni già in parte contenute in precedenti della stessa Cassazione, e finanche nella pronuncia 19854/2004, si pone in uno strano rapporto con gli interventi precedenti, di cui riprende le motivazioni per utilizzarle, però, in un ordine invertito.

La sentenza, inoltre, si pone in aperto contrasto con il principio di diritto affermato dalla medesima Cassazione in sede di ricomposizione del conflitto giurisprudenziale nel 2004, costituendo, in definitiva, un passo indietro rispetto a principi che dovrebbero considerarsi assunti al sistema, a maggior ragione nella misura in cui appaiono condivisibili, almeno seguendo la precedente ricostruzione che ne aveva fatto lo stesso giudice di legittimità.


 

 

 
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