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Giurisprudenza

Segreto istruttorio senza effetti nelle aule tributarie

Sotto la lente del giudice di legittimità la valenza in sede di accertamento di dati e notizie acquisiti nel corso di un'indagine penale a carico del contribuente

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La trasmissione non autorizzata di atti coperti dal segreto istruttorio rileva solo nell'ambito del giudizio penale e - se può giustificare provvedimenti a carico del trasgressore - non inficia la valenza probatoria dei dati trasmessi, né implica l'invalidità dell'atto impositivo adottato sulla scorta di essi. Lo ha confermato la Corte di cassazione, con la sentenza n. 22173 del 3 settembre 2008.

La vicenda
L'agenzia delle Entrate contestava a un contribuente un maggior reddito d'impresa, conseguente a un'indebita deduzione di costi, ritenuti inesistenti in base a quanto emerso da indagini della Guardia di finanza. Nel relativo ricorso (respinto dalla Ctp), il contribuente deduceva la nullità dell'atto impositivo per illegittimo utilizzo di dati acquisiti nel corso dell'indagine penale.

La pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Commissione regionale (con accoglimento dell'appello del contribuente limitatamente alla contestata contabilizzazione di costi ritenuti inesistenti), che giudicava insufficienti gli elementi indiziari addotti dall'ufficio, a confronto con gli argomenti posti dal giudice penale a sostegno della sentenza di assoluzione dello stesso contribuente. In altre parole, il giudice del riesame affermava di avere ricavato dalla motivazione della sentenza penale "adeguati elementi a confutazione degli assunti apparentemente più decisivi dell'Amministrazione Finanziaria".

L'Amministrazione finanziaria ricorreva in Cassazione con unico mezzo di impugnazione, deducendo violazione di legge riguardo al punto relativo alla ritenuta inosservanza, da parte dell'ufficio, dell'onere di provare l'asserita inesistenza di costi contabilizzati e dedotti dal contribuente. In specie, la parte pubblica sosteneva che:

 

  • la prova dell'effettiva esistenza dei costi dedotti doveva essere data dal contribuente
  • le prove documentali citate in sentenza (fatture, bolle di accompagnamento, documenti di pagamento), tacciate di fittizietà, non potevano, per ciò stesso, costituire prova dell'effettività delle operazioni
  • gli elementi risultanti dal processo penale (concluso in appello con sentenza di proscioglimento dell'imputato "perché il fatto non costituiva più reato" e "non per insussistenza dello stesso") non erano stati compiutamente vagliati, essendo mancato qualsiasi esame degli indizi circa l'inesistenza delle pretese ditte emittenti fatture meramente cartolari.

La pronuncia della Corte di cassazione
La Suprema corte, nell'accogliere le censure dell'Amministrazione finanziaria, ha, prima di tutto, esternato una serie di puntualizzazioni che costituiscono principi basilari del processo tributario e dai quali, troppo spesso, i giudici di merito si discostano.

Per cominciare, i giudici hanno osservato che, in materia di accertamento del reddito d'impresa, al fine di provare la fittizietà di operazioni asseritamene inesistenti, anche a fronte di una contabilità formalmente regolare, l'ufficio può fare legittimo ricorso a presunzioni semplici di cui all'articolo 39 del Dpr 600/1973 (cfr anche Cassazione, sentenza 1023/2008), e che dette presunzioni comportano - se ritenute dal giudice di merito dotate dei caratteri di gravità, precisione e concordanza - l'inversione legale dell'onere della prova a carico del contribuente (ex plurimis, sentenze della Cassazione18000/2006 e 28342/2005).

La Corte è passata, poi, occupandosi delle relazioni (e limitazioni) sussistenti tra processo penale e processo tributario, a ribadire che la sentenza penale di condanna o di assoluzione, anche quando sia divenuta irrevocabile, non ha efficacia vincolante nel processo tributario (cfrCassazione, sentenze 10945/2005, 17057/2006 e 22438/2008), in quanto:

  • nel giudizio tributario operano limitazioni all'assunzione della prova (come il divieto di prova testimoniale)
  • nel giudizio penale trovano ingresso legittime presunzioni, inidonee a fondare la pronuncia di condanna.

Se, dunque, è precluso al giudice tributario estendere automaticamente gli effetti di una sentenza definitiva penale all'azione accertatrice tributaria, lo stesso, tuttavia, nell'esercizio della propria autonomia decisionale, è tenuto a verificare la rilevanza, rispetto all'oggetto dedotto in giudizio, di tutti gli elementi desumibili dall'ambito penale.
Nella specie, secondo il giudice di legittimità, la sentenza della Ctr era viziata in quanto la Commissione del riesame, pur partendo da una premessa corretta (l'intenzione "di dover prendere in considerazione le risultanze istruttorie acquisite nel giudizio penale, allo scopo di valutarle liberamente"), era giunta a conclusioni erronee perché aveva omesso di esaminare nel loro complesso dette risultanze, ossia con riguardo "anche" agli accertamenti compiuti dalla polizia giudiziaria. In tal modo, la motivazione della sentenza penale (che giustificava l'assoluzione dell'imputato per mancanza di univocità degli indizi a carico) aveva acquisito "preminenza" rispetto agli assunti più decisivi dell'Amministrazione finanziaria.

Ciò senza considerare che, in materia tributaria, la legge non richiede che la pretesa fiscale sia supportata da prove univoche, certe e inconfutabili (come all'inverso avviene nel giudizio penale), essendo sufficienti, a tal fine, indizi gravi, precisi e concordanti, idonei a spostare sul contribuente l'onere della prova contraria.

Esaminando, infine, le censure esposte dal contribuente nel ricorso incidentale, in ordine all'asserita illegittimità degli avvisi di accertamento per mancata allegazione agli atti dell'autorizzazione del giudice penale di cui deve munirsi la Guardia di finanza per l'uso ai fini fiscali dei dati e notizie acquisiti in sede di indagini di polizia giudiziaria, la Corte è giunta a conclusioni rigorose, atte a sgombrare il campo da equivoci e malintesi.

Nel respingere le doglianze del contribuente, la Cassazione ha puntualizzato che l'eventuale mancato rilascio dell'autorizzazione del procuratore della Repubblica - la quale è "rivolta alla tutela della segretezza delle indagini penali" - non comporta una limitazione o un condizionamento della capacità di difesa della parte privata.

Inoltre, aderendo a conforme e costante giurisprudenza di legittimità sull'argomento (sentenze 11203/2007, 2450/2007, 22035/2006, 15538/2002, 15914/2001), il collegio ha confermato che l'autorizzazione del giudice penale è posta a tutela della "riservatezza" delle indagini penali e dei diritti della persona che a essa è sottoposta (Corte costituzionale, sentenza 51/1992), escludendo che da tali assunti possa trarsi la conseguenza che la sua mancanza infici la valenza probatoria dei dati trasmessi o implichi l'invalidità dell'atto impositivo adottato sulla sua scorta (Cassazione, sentenza 7208/2003).

Tali considerazioni derivano dalle disposizioni che assegnano alla Guardia di finanza il ruolo di cooperazione con gli uffici fiscali per l'acquisizione e il reperimento degli elementi utili ai fini dell'accertamento tributario; Gdf che espleta analoga funzione di interesse pubblico allorché agisce anche in veste di polizia giudiziaria per il perseguimento dei reati fiscali. E nell'ambito di tale attività investigativa le norme fiscali riconoscono, in sostanza, all'autorità giudiziaria penale il potere di derogare al segreto istruttorio, in vista dell'interesse a un sollecito e corretto accertamento tributario.

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