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Giurisprudenza

Senza buona fede non si invoca
il legittimo affidamento. È sleale

L’asserita inerzia dell’ufficio nel liquidare le sanzioni insieme all’imposta è solo un pretesto a fronte di una condotta fiscale elusiva e quindi socialmente scorretta

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In una vertenza concernente il mancato pagamento dell’imposta comunale su un immobile da parte di una società, la Corte di cassazione ha stabilito, con ordinanza 23309 del 9 novembre, che il contribuente non può invocare il “legittimo affidamento” nei confronti dell’Amministrazione comunale se, all’origine della controversia, il suo comportamento era stato in contrasto con il dovere di correttezza e, comunque, tale da escludere il requisito soggettivo della buona fede.
 
Il fatto
La vicenda è quella di una società raggiunta da un avviso di rettifica con la quale il Comune competente aveva accertato il mancato pagamento annuale dell’Ici. L’Amministrazione, però, non aveva più determinato, in seguito, l’importo delle sanzioni, essendo stata omessa la quantificazione, in sede di liquidazione, di capitali e interessi. Cosicché, nell’impugnazione dell’atto, il contribuente sosteneva che, in forza dell’inerzia dell’ufficio, fosse maturato il “legittimo affidamento” – ex articolo 10, comma 1, della legge 212/2000, che disciplina nei rapporti tra Amministrazione finanziaria e contribuente i principi della buona fede e della collaborazione nonché quello dell’affidamento – a che non gli venisse più chiesto il pagamento delle somme “fantasma”.
 
La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso, la cui pronuncia veniva confermata in appello. In questa sede, il giudice del riesame riteneva applicabile l’articolo 10 dello Statuto del contribuente in base alla considerazione che, nella specie, il comportamento sanzionatorio fosse conseguenza di atti riconducibili a responsabilità dell’Amministrazione locale, cui il contribuente si era uniformato.
 
Il Comune impugna la sentenza del riesame per violazione di legge (articoli 10 della legge 212/2000, e 11 del Dlgs 504/1992) e vizi di motivazione.
 
Motivi della decisione
La Corte di cassazione sovverte i giudicati di merito e, nell’accogliere il ricorso dell’ente, afferma che la pretesa del contribuente poggia su un presupposto errato, visto che l’omesso pagamento dell’Ici “era da ritenersi in contrasto con il richiesto dovere di correttezza e tale da escludere il particolare requisito soggettivo della buona fede”.
Non solo, ma l’asserita inerzia dell’ufficio, che non aveva provveduto a liquidare le sanzioni contestualmente all’imposta e agli interessi (e che il contribuente vorrebbe dirottare a proprio favore), appariva chiaramente contro la legge e, quindi, non in grado di ingenerare nello stesso contribuente l’insorgere di legittime aspettative.
 
Questa è la prospettiva che ha colpito il giudice di legittimità nella valutazione delle posizioni delle parti, ossia che il comportamento del contribuente, a sua volta, non fosse connotato da buona fede o, comunque, che fosse veicolato a distrarre a proprio vantaggio un atteggiamento non scorretto dell’Amministrazione comunale.
Ciò, perché l’obbligo del pagamento di interessi e sanzioni conseguiva per legge e non per “volontà” amministrativa (cfr Cassazione, sentenze 14782/2001 e 2133/2002).
 
Pertanto, nel cassare la sentenza di secondo grado, la sezione tributaria della Cassazione ha ribadito il principio di diritto vigente in materia (sentenza 17576/2002), secondo cui “in tema di "legittimo affidamento" del contribuente di fronte all'azione dell'Amministrazione finanziaria, ai sensi dell'art. 10, commi primo e secondo, legge n. 212 del 2000 (cd. "Statuto del contribuente"), che tale tutela ha voluto esplicitamente offrire, costituisce situazione tutelabile quella caratterizzata:
a) da un'apparente legittimità e coerenza dell'attività dell'Amministrazione finanziaria, in senso favorevole al contribuente, rilevabile dalla sua condotta;
b) dalla buona fede del contribuente, rilevabile dalla sua condotta, in quanto connotata dall'assenza di qualsiasi violazione del dovere di correttezza gravante sul medesimo;
c) dall'eventuale esistenza di circostanze specifiche e rilevanti, idonee a indicare la sussistenza dei due presupposti che precedono”.
 
In questo contesto, la Cassazione valorizza la buona fede come fondamento di un divieto di abuso del diritto, atteso che, in materia tributaria, tale divieto si traduce in un principio generale antielusivo che comporta l’inopponibilità del negozio all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio fiscale che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva (Cassazione, 16431/2011).
 
Sicché, in ultima analisi, la “buona fede” implica – a carico di entrambe le parti – non solo un atteggiamento leale, non capzioso e non contraddittorio, ma anche la necessità di operare per un rapporto fiscale semplice nei modi d’attuazione, trasparente nelle procedure e ampiamente condiviso (Cassazione, 5358/2006).
Peraltro, anche la Corte costituzionale ha già colto (sentenza 51/1992) il forte nesso tra principio di correttezza e adempimento dell’obbligazione di concorso alle pubbliche spese, allorché qualifica la condotta dell’evasore come caratterizzata da una “slealtà sociale”.
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