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Giurisprudenza

Senza idonea domanda nel merito,
impossibile disapplicare le sanzioni

Considerata la struttura “chiusa” del giudizio di legittimità, l’istanza del contribuente in Cassazione, finalizzata alla cancellazione delle penalità, non è ammissibile

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Il giudice può disapplicare le sanzioni per violazioni di norme tributarie, anche in sede di legittimità, qualora abbia accertato che le stesse siano state commesse in presenza e in connessione con una situazione di oggettiva incertezza nell’interpretazione normativa, ma solo se vi è stata domanda del contribuente nei modi e nei termini processuali appropriati. Lo ha chiarito la Cassazione nell’ordinanza n. 18388 del 9 luglio 2019.

I fatti e la pronuncia
L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza con la quale la Commissione tributaria regionale del Molise, in sede di rinvio, era tornata a pronunciarsi su due avvisi di accertamento relativi agli anni d’imposta 2001 - 2002, emessi nei confronti di una spa.
In particolare, la società ha riassunto la causa innanzi al giudice di rinvio, sostenendo che, pur aderendo al principio di diritto statuito dalla Cassazione (secondo il quale i contributi erogati a norma di legge alle aziende di trasporto pubblico locale, al fine di ripianare i disavanzi di esercizio, vanno inclusi nel calcolo dell’imponibile ai fini Irap), restavano comunque esclusi dalla base imponibile Irap i contributi correlati a componenti negativi non ammessi in deduzione.
Di conseguenza, a parere della contribuente, da una parte, gli importi recuperati a tassazione dovevano essere percentualmente ridotti della quota servita a remunerare componenti negativi non ammessi in deduzione, e in particolare, le spese del personale; dall’altra, le sanzioni irrogate dovevano essere disapplicate per le obiettive condizioni di incertezza normativa.
La Ctr, a conclusione del giudizio di rinvio, ha accolto parzialmente il ricorso della spa, affermando che “…l’incertezza interpretativa consente di annullare le sanzioni irrogate …”.

L’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione, lamentando (anche) violazione di legge (articolo 8, Dlgs n. 546/1992; articolo 6, Dlgs n. 472/1997 e articolo 10, comma 3, legge n. 212/2000) e ritenendo che la Ctr avesse errato nell’accogliere la richiesta di disapplicazione delle sanzioni, perché tale domanda era stata formulata dalla società solo nel ricorso in riassunzione a seguito del giudizio di cassazione.

La Corte ha accolto il ricorso ribadendo che, secondo il proprio orientamento consolidato, “l’accertamento della sussistenza della oggettiva incertezza dell’interpretazione normativa, ai fini della disapplicazione delle sanzioni, può essere operato dal giudice tributario solo in presenza di domanda del contribuente…” (Cassazione, n. 18388/2019).

Osservazioni
I giudici di legittimità sono stati chiamati a chiarire i limiti e i tempi nei quali le Commissioni tributarie possono dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni, in caso di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme alle quali la violazione si riferisce. Tale potere, conferito dall’articolo 8, Dlgs n. 546/1992 (secondo cui, la Commissione tributaria può dichiarare non applicabili le sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie, laddove la violazione sia giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce), è stato ribadito, con portata più generale, dall’articolo 6, comma 2, Dlgs n. 472/1997 (per il quale, non è punibile l’autore della violazione, se questa è determinata da obiettive condizioni di incertezza su portata e ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferiscono) e dall’articolo 10, comma 3, legge n. 212/2000 (che prevede che non vengano irrogate sanzioni qualora la violazione dipenda da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’applicabilità della norma, fermo restante che la pendenza di un giudizio in ordine alla legittimità della norma tributaria non costituisce un’obiettiva condizione di incertezza).
 
Dal delineato quadro normativo, la Cassazione ha elaborato il principio secondo il quale il potere-dovere di disapplicare le sanzioni non deve essere esercitato dalle Commissioni tributarie anche d’ufficio (in ogni stato e grado del giudizio), oltre che su istanza di parte. Tale principio non implica, tuttavia, che il giudice possa disporre la disapplicazione delle sanzioni d’ufficio, ma solo che la sussistenza delle condizioni per la disapplicazione, quando domandata dal contribuente nei modi e nei termini processuali appropriati, possa essere accertata anche dal giudice di legittimità (Cassazione, nn. 25676/2008 e 26060/2014).
Al riguardo, costituisce ius receptum il principio secondo il quale, in tema di sanzioni amministrative per violazione di norme fiscali, il potere del giudice tributario di dichiarare l’inapplicabilità delle sanzioni deve ritenersi sussistente quando la disciplina normativa, della cui applicazione si tratti, contenga una pluralità di prescrizioni, il cui coordinamento appaia concettualmente difficoltoso per l’equivocità del loro contenuto, derivante da elementi positivi di confusione.
Poiché grava sul contribuente l’onere di allegare la ricorrenza di tali elementi di confusione, da una parte, deve escludersi che il giudice tributario di merito debba decidere d’ufficio l’applicabilità dell’esimente; dall’altra e di conseguenza, non è consentita una censura avente per oggetto la mancata pronuncia d’ufficio sul punto (Cassazione, nn. 2890/2006 e 4031/2012), ovvero la declaratoria d’inammissibilità della questione perché tardivamente introdotta solo in corso di causa (Cassazione, n. 9335/2015).

Tali conclusioni risultano altresì coerenti con il carattere impugnatorio del processo tributario, derivante dal suo meccanismo d’instaurazione (articoli 18, comma 2, lettera c), 19 e  24, comma 2, Dlgs n. 546/1992), e consistente nell’impugnazione del provvedimento impositivo, volta a ottenere il sindacato giurisdizionale sulla legittimità formale e sostanziale del medesimo, con indagine sul rapporto tributario nei limiti dei motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’amministrazione, che il contribuente deve specificatamente dedurre nel ricorso introduttivo in primo grado. Dal momento che i motivi di ricorso costituiscono la causa petendi della domanda di annullamento (petitum) dell’atto impositivo (Cassazione, n. 20398/2005), ne consegue che sono inammissibili le nuove causae petendi introdotte in corso di causa o con l’appello (articolo 57, comma 1, Dlgs. n. 546/1992; Cassazione, n.7766/2006).

Con riferimento ai tempi e alle preclusioni processuali che il contribuente deve rispettare per essere  legittimato a chiedere al giudice di non applicare le sanzioni, infatti, la Cassazione ha affermato il principio, pacifico nella sezione tributari, secondo il quale la domanda di disapplicazione delle sanzioni incontra la preclusione della domanda introduttiva del giudizio di primo grado, nel senso che non può, pertanto, essere formulata per la prima volta in sede di appello o in sede di legittimità (Cassazione, nn. 22890/2006, 25676/2008, 7502/2009, 8823 e 4031 del 2012, 24060/2014, 440 e 9335 del 2015 e 14402/2016).

La violazione del divieto di introdurre una domanda nuova in appello (o un’eccezione nuova non rilevabile d’ufficio), ex articolo 345 cpc e, per il giudizio tributario, ex articolo  57, Dlgs n. 546/1992 e, inoltre, l’inosservanza dell’obbligo del giudice di secondo grado di non esaminare nel merito tale domanda sono entrambe eccezioni rilevabili d’ufficio in sede di legittimità, poiché costituiscono una preclusione all’esercizio della giurisdizione, verificabile nel giudizio di cassazione, anche d’ufficio, a prescindere dalla circostanza che l’appellato abbia accettato il contraddittorio su tale domanda (Cassazione, nn. 11202/2003, 12417 e 19605 del 2004 e 28302/05). Di conseguenza, non può essere formulata per la prima volta in sede di legittimità (Cassazione, nn. 25676/2008 e 24060/2014).

Nella fattispecie al vaglio della Corte, la domanda della contribuente, concernente l’accertamento della sussistenza dell’oggettiva incertezza dell’interpretazione normativa, ai fini della disapplicazione delle sanzioni, non proposta nei gradi di merito svoltisi anteriormente al relativo giudizio di legittimità, doveva ritenersi nuova nel giudizio di rinvio e, come tale, inammissibile, in applicazione del divieto per le parti di prendere, in tale sede, conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata (art. 394, comma 3, cpc e, analogamente, per il processo tributario, articolo 63, comma 4, Dlgs n. 546/1992).
Alla contribuente, quindi, non sarebbe stato possibile introdurre tale richiesta, per la prima volta, in sede di giudizio di rinvio, successivo all’annullamento della sentenza d’appello in sede di legittimità, considerata la struttura “chiusa” propria di tale giudizio, caratterizzato dalla  “cristallizzazione della posizione delle parti nei termini in cui era rimasta definita nelle precedenti fasi processuali fino al giudizio di cassazione e più precisamente fino all’ultimo momento utile nel quale detta posizione poteva subire eventuali specificazioni…”.

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