Articolo pubblicato su FiscoOggi (https://fiscooggi.it/)

Giurisprudenza

La società è palesemente una cartiera:
la “buona fede” non è ammissibile

L’emissione della fattura, la corrispondenza del prezzo fatturato a quello di mercato e l’avvenuto pagamento non sono sufficienti a provare la correttezza dell’operazione

immagine di taeghe di veicoli

La Corte di cassazione, con l’ordinanza n. 21809 del 29 agosto 2019, ha risolto un contenzioso in tema di frodi carosello e operazioni inesistenti, chiarendo rilevanti profili in tema di onere della prova e profili soggettivi di responsabilità da parte dell’acquirente, asseritamente in buona fede.
Nel caso di specie, il contribuente (in qualità di erede) proponeva ricorso avverso un avviso per mancato versamento Iva, con il quale era stato accertato che il de cuius, commerciante di autovetture, aveva annotato fatture soggettivamente inesistenti, relative a operazioni con soggetti d'imposta considerati “cartiere”, che s'interponevano fittiziamente nella importazione di autoveicoli usati in ambito Ue, acquistando merci in esenzione di Iva, senza poi ottemperare al versamento dell'imposta dovuta in Italia.
Nel corpo dell’avviso impugnato veniva dato conto del percorso logico-giuridico in base al quale si evidenziava che le cartiere interposte erano prive di struttura organizzativa propria e di fonti finanziarie proprie, pur risultando movimentare ingenti quantità di denaro.
Le stesse, peraltro, non avevano mai versato l’Iva incassata sulle vendite e, durante un accesso della Gdf presso l'abitazione del titolare di una cartiera, era stato addirittura rinvenuto lo stesso ricorrente, “che utilizzava, insieme ad altri clienti italiani, l'abitazione in parola come tappa di riferimento per impartire … le istruzioni circa il fornitore estero dal quale acquistare e il tipo di veicolo, nonché le modalità di pagamento”.

La Ctp accoglieva il ricorso, mentre la Commissione tributaria, in accoglimento dell'appello dell'Agenzia delle entrate, confermava la legittimità della pretesa.
Il contribuente ricorreva infine in Cassazione, deducendo tra le altre, per quanto di interesse, errata e falsa applicazione delle norme sulla simulazione, laddove i giudici di appello avevano fatto discendere dalla fittizietà dell'interposizione nella catena distributiva, la nullità e, quindi, l'inesistenza dell'operazione oggetto di fatturazione.
Il ricorrente contestava poi il fatto che essendo l’Iva un’imposta neutra, anche ad ammettere che il de cuius fosse consapevole della strumentalità dell'attività dell'intermediario, in difetto di prova sulla “socializzazione” dell'imposta evasa, nessun addebito potesse essere considerato legittimo, avendo il contribuente comunque diritto alla detrazione, salva la dimostrazione, da parte dell'ufficio, che la corresponsione non fosse avvenuta; prova questa a suo avviso non raggiunta a fronte della dimostrazione dei pagamenti con bonifici bancari e della mera supposizione di una restituzione del denaro.

Secondo la Corte suprema le censure sono infondate.
Affermano, infatti, i giudici di legittimità che, avuto riguardo agli elementi tipici delle frodi carosello e al relativo riparto dell'onere probatorio, la giurisprudenza della Corte si è ormai assestata nel senso che “In tema di IVA, l'Amministrazione finanziaria, se contesta che la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell'ambito di una frode carosello, ha l'onere di provare, non solo l'oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l'Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (così, ex multis, Cassazione, pronuncia n. 9851/2018).

E, nella specie la Ctr, sulla base degli elementi già evidenziati, aveva, da un lato, ritenuto che l'ufficio avesse fornito la prova della fittizietà del fornitore intermedio e, dall’altro, aveva ritenuto che, in ragione dell'elevato numero di transazioni svolte nel corso degli anni, il contribuente fosse pienamente consapevole del carattere fittizio dell’attività imprenditoriale, considerato che se un acquisto occasionale può anche essere neutro, non così può dirsi a fronte di un rapporto durevole, posto che l'imprenditore non può non conoscere il prezzo di mercato corretto per il tipo di autoveicoli importati, evidentemente più elevato rispetto a quello acquisibile da un imprenditore preordinatamente orientato a non versare l’Iva dovuta.
Ancora, la Commissione tributaria regionale aveva poi rilevato che, a fronte di tale quadro, il contribuente non aveva offerto alcuna ricostruzione alternativa basata su idonei elementi di fatto, quanto in particolare alla funzione economica dell'intermediario, non essendo, comunque, sufficiente la prova della fatturazione degli acquisti e del pagamento: la prima, perché costituisce elemento strutturale della fattispecie fraudolenta e il secondo perché non può escludersi un movimento finanziario di segno opposto, dimostrabile anche in via presuntiva.
Sulla base di tali elementi il giudice d'appello aveva, quindi, legittimamente ritenuto la sussistenza di un accordo simulatorio tra l'intermediario e il contribuente, stante l'assenza di alcuna giustificazione economica del passaggio formalmente esistente nell'ambito della catena distributiva dei beni oggetto di vendita, con conseguente inesistenza delle operazioni oggetto di fatturazione.

La Corte di cassazione ritiene, pertanto, che la motivazione fornita dalla Ctr sia del tutto idonea, sviluppando un ragionamento presuntivo (che muoveva, cioè, da dati noti, per risalire all'ignoto), attraverso cui il giudice d'appello ha sintetizzato in un quadro unitario, procedendo nel corretto ordine logico, quegli indizi forniti dall'ufficio, sia riguardo al carattere di “cartiera” sia riguardo alla piena consapevolezza, da parte del contribuente accertato, di tale carattere.
I giudici di legittimità richiamano, inoltre, un principio già affermato in relazione alla fruibilità del “regime del margine”, ma senz'altro estensibile anche al caso in esame, in base al quale è preciso dovere del rivenditore di veicoli usati “... dimostrare la sua buona fede, e cioè non solo di aver agito in assenza della consapevolezza di partecipare ad un'evasione fiscale, ma anche di aver usato la diligenza massima esigibile da un operatore accorto (secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità rapportati al caso concreto), al fine di evitare di essere coinvolto in tali situazioni, in presenza di indizi idonei a farne insorgere il sospetto”, e concludendo che l'operato “diligente” dell'imprenditore non può essere improntato alla mera ricerca del profitto, ma deve opportunamente essere orientato a evitare transazioni che si presentino idonee a farne sospettare l'illegittimità.

Quanto, infine, alla questione della simulazione, secondo la Corte è evidente che la Ctr vi aveva fatto ricorso per sottolineare la tipicità della fattispecie rilevante dal punto di vista tributario, trattandosi di operazione soggettivamente inesistente perché affetta da simulazione relativa, laddove gli effetti di tale accordo simulatorio non comportavano la nullità dell'operazione da un punto civilistico, ma determinavano l'indetraibilità dell'Iva, proprio perché il presupposto della detrazione ex articolo 19 Dpr n. 633/1972 è che l'operazione sia intervenuta tra l'effettivo cedente e il cessionario che intende avvalersene.
I giudici richiamano a tal proposito il costante insegnamento per cui “In tema di IVA relativa ad operazioni soggettivamente inesistenti, il committente cessionario, al quale sia contestata la detrazione dell'IVA, versata in rivalsa al soggetto, diverso dal cedente-prestatore, che tuttavia ha emesso la fattura, ha il diritto di detrarre l'imposta soltanto se provi che non sapeva o non poteva sapere di partecipare ad un'operazione fraudolenta ed in particolare se dimostri almeno una di queste due circostanze e cioè di non essersi trovato nella situazione giuridica oggettiva di conoscibilità delle operazioni pregresse intercorse tra il cedente ed il fatturante in ordine al bene ceduto, oppure, nonostante il possesso della capacità cognitiva adeguata all'attività professionale svolta in occasione dell'operazione contestata, non sia stato in grado di abbandonare lo stato di ignoranza sul carattere fraudolento delle operazioni degli altri soggetti collegati all'operazione” (Cassazione, pronuncia n. 8132/2011 e altre).
Così stando le cose è altrettanto evidente che alcuna prova occorresse circa la “socializzazione” dell'Iva evasa, dato che, una volta accertato quanto precede, il contribuente non poteva, comunque, portare in detrazione l’Iva in discorso.

Tanto premesso, in ordine allo specifico caso processuale, in via più generale si evidenzia anche quanto segue.
L'Amministrazione che contesti la frode carosello deve provare, anche a mezzo di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, gli elementi di fatto attinenti al cedente (la sua natura di cartiera, l'inesistenza di una struttura operativa, il mancato pagamento dell'Iva) e la connivenza da parte del cessionario, indicando gli elementi oggettivi che avrebbero dovuto indurre un normale operatore a sospettare dell'irregolarità delle operazioni, spettando poi al contribuente, che ha portato in detrazione l'Iva, la prova di aver concluso realmente l'operazione, o di essersi trovato nella situazione di oggettiva impossibilità, nonostante l'impiego della dovuta diligenza, di percepire il carattere fraudolento delle operazioni.
Le disposizioni comunitarie non consentono una normativa nazionale che neghi a un soggetto passivo il diritto di detrarre l'imposta del valore aggiunto dovuta o assolta per beni che gli sono stati ceduti sulla base del solo fatto che la fattura è stata emessa da un soggetto che deve essere considerato un soggetto inesistente, tranne il caso in cui si dimostri che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che detta cessione si iscriveva in un'evasione dell'imposta sul valore aggiunto.
Facendo uso della comune diligenza che si raccomanda a un operatore professionale del settore mediamente avveduto, il contribuente deve, quindi, verificare (provandolo) la regolarità sostanziale dell’operazione e non soltanto la regolarità formale della fattura (cfr Cassazione, decisione n. 13803/14).
A fronte, poi, della incontestata natura di “cartiera” della società emittente una fattura ritenuta soggettivamente inesistente, neppure la constatazione della corrispondenza del prezzo fatturato a quello corrente di mercato è sufficiente al fine di provare la buona fede soggettiva, ossia la non conoscibilità della frode da parte del cessionario (cfr Cassazione, ordinanza n. 12615/2018).
Tali principi vanno poi coordinati con la giurisprudenza comunitaria formatasi sulla nozione di “buona fede del soggetto passivo, da intendersi quale ignoranza incolpevole in ordine agli accordi fraudolenti volti alla evasione dell'Iva e intercorsi tra il soggetto cedente/commissionario che ha emesso la fattura e le parti intervenute nelle operazioni precedenti o successive, sulla quale è imperniato il principio fondamentale del sistema comune dell'Iva, che riconosce il diritto alla detrazione a tutti quei soggetti passivi che effettuino operazioni di cessione di beni e di prestazioni di servizi nell'esercizio di una attività economica (cfr Corte giustizia del 6 settembre 2012, causa C-324111, Gabor Toth, punti 23-28; 21 giugno 2012, cause riunite C-80/11 e C-142/11, Mahageben kft, e David).
E questo anche considerato il principio di diritto comunitario secondo cui “gli interessati non possono avvalersi abusivamente o fraudolentemente dei diritti loro riconosciuti dall'ordinamento comunitario (Corte giustizia 6 luglio 2006, Kittel e Recolta, punto 53 e 54).
E l’onere della prova a carico dell'Amministrazione finanziaria deve, in tali casi, ritenersi soddisfatto anche in via presuntiva, dato che “tra il fatto noto e il fatto ignoto non occorre che sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità” (Cassazione, pronunce nn. 9961/1996, 2700/1997 e 5082/1997). Al riguardo, nell’ipotesi in cui l'Amministrazione contesti al contribuente di avere adoperato, ai fini della detrazione Iva, fatture soggettivamente inesistenti, ovvero emesse da un soggetto diverso dall'effettivo fornitore del bene o prestatore del servizio, la prova che la prestazione non è stata effettivamente resa dal fatturante, perché sfornito della sia pur minima dotazione personale e strumentale adeguata alla sua esecuzione, costituisce, di per sé, per la sua valenza dimostrativa, idoneo elemento sintomatico dell'assenza di “buona fede” del contribuente.
Nel caso, dunque, di operazioni inesistenti e frodi carosello, a fronte della ricostruzione dell’Amministrazione finanziaria, il contribuente non si potrà limitare a delle mere giustificazioni soggettive, sostenendo che non poteva indagare sulla effettiva esistenza dei suoi fornitori e cessionari.

URL: https://www.fiscooggi.it/rubrica/giurisprudenza/articolo/societa-e-palesemente-cartiera-buona-fede-non-e-ammissibile