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Giurisprudenza

La società è piccola, i soci sanno.
Plausibile la distribuzione del nero

Soltanto tre persone, tra l’altro i due maggiori azionisti legati anche da vincolo familiare, che si suppone abbiano un rapporto di solidarietà e di reciproco controllo degli affari

È valida la presunzione di distribuzione degli utili extra-bilancio accertati in capo alla società di capitali con ristretta base azionaria, in quanto un tale assetto fa ritenere plausibile che tutti i soci siano consapevoli dell’esistenza di ricavi “in nero” e che tutti abbiano partecipato alla loro distribuzione.
Questo il contenuto della sentenza n. 28542 della Corte di cassazione del 29 novembre 2017.
 
Il fatto
La controversia trae origine da una serie di avvisi di accertamento notificati a una società di capitali, attraverso cui l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato il reddito imponibile ai fini delle imposte dirette e dell’Iva a seguito dell’avvenuta verifica delle movimentazioni dei conti correnti bancari effettuate dai soci dell’impresa verificata.
Avverso i suddetti atti la curatela fallimentare ha proposto ricorso, accolto in parte dalla Commissione tributaria provinciale, che annullava parzialmente gli atti impositivi riducendo i maggiori redditi accertati e le sanzioni irrogate.
 
L’Agenzia delle entrate ha impugnato la decisione dei giudici di primo grado, lamentando l’illegittimità dell’abbattimento operato sui redditi accertati in base al calcolo forfettario dei costi connessi alla produzione e adducendo la erroneità dell’esclusione delle ritenute non versate in qualità di sostituto d’imposta sugli utili che l’amministrazione finanziaria ha presunto essere stati corrisposti ai soci.
 
La Ctr ha confermato la sentenza dei giudici di prime cure, dichiarando che l’Agenzia delle entrate avrebbe erroneamente operato riprendendo a tassazione come reddito della società anche le movimentazioni bancarie con causali a essa estranee.
I giudici d’appello hanno anche contestato la legittimità della presunzione di distribuzione ai soci degli utili non contabilizzati perché tale circostanza non era avvalorata da alcuna prova e, di conseguenza, non si poteva contestare alla società l’omesso versamento delle relative ritenute d’acconto.
 
L’ufficio finanziario ha impugnato la sentenza di secondo grado dinanzi alla Corte di cassazione, sia con riferimento all’abbattimento forfettario dei redditi accertati da parte dei giudici di primo grado che all’eliminazione del recupero a tassazione delle ritenute alla fonte non versate sugli utili presuntivamente distribuiti ai soci.
Con riferimento a quest’ultimo rilievo l’Agenzia ricorrente ha rilevato che i giudici d’appello hanno disconosciuto la presunzione pur in assenza di idonee giustificazioni da parte della società circa la destinazione delle somme non contabilizzate.
 
I giudici di Cassazione hanno accolto il motivo principale di ricorso e hanno cassato la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Ctr.
 
La decisione
Il punto centrale della controversia in commento riguarda la legittimità della presunzione semplice secondo cui, nel caso di ristretta compagine sociale, i maggiori redditi imponibili definitivamente accertati in capo a una società di capitali si presumono attribuiti pro-quota ai suoi soci.
Trattasi di presunzione semplice ai sensi dell’articolo 2729 del codice civile, di fonte giurisprudenziale, che deroga ai principi generali di tassazione del reddito in capo alle società di capitali, secondo cui è il reddito è assoggettato a imposizione in via autonoma e definitiva in capo alla società, mentre è ulteriormente imponibile in capo ai soci il solo utile effettivamente suddiviso, che sconta una ritenuta alla fonte.
 
Nel caso di specie, l’amministrazione finanziaria aveva contestato alla società, in qualità di sostituto d’imposta, l’omessa applicazione e l’omesso versamento delle ritenute alla fonte sui maggiori utili accertati, presuntivamente assegnati ai soci.
Secondo i giudici di merito tale rilievo risultava illegittimo perché l’ufficio impositore non aveva fornito alcuna prova dell’avvenuta distribuzione, non essendo sufficiente il solo rilievo della ristretta base azionaria.
Nel caso di specie tale compagine era costituita da tre soli soci, due dei quali (titolari della maggior parte delle quote) legati da uno stretto vincolo familiare.
 
A parere dei giudici di legittimità tale decisione è errata e deve essere annullata sul punto perché contraria all’orientamento consolidato della Corte che ammette la validità, ai fini delle imposte dirette, della presunzione di attribuzione ai soci degli utili extracontabili nell’ipotesi di Sdc a ristretta base societaria.
Secondo tale orientamento, infatti, la presunzione in commento è pienamente legittima e non viola il divieto della cosiddetta “doppia presunzione”, anch’esso di natura giurisprudenziale, per cui sono inammissibili le presunzioni di secondo grado. Ciò sulla base della constatazione che le presunzioni semplici, ai sensi dell’articolo 2727 cc, sono le conseguenze che un “giudice trae da un fatto noto per risalire ad un fatto ignorato”, sicché gli elementi che costituiscono la premessa devono avere il carattere della certezza e della concretezza.
 
Partendo da tale assunto, la Corte suprema ha ribadito che, nel caso di presunzione di distribuzione tra i soci degli utili extracontabili di una società a ristretta base azionaria, il fatto noto non è costituito dalla sussistenza di maggiori redditi accertati induttivamente nei confronti della società – che potrebbe essere a sua volta un fatto “ignoto” ossia non certo – bensì dalla ristrettezza dell’assetto societario.
La ristretta base societaria implica un rapporto di solidarietà e di reciproco controllo della gestione societaria da parte dei soci “che fa ritenere plausibile in tutti la conoscenza degli affari sociali e la consapevolezza dell’esistenza di utili extra-bilancio, alla cui distribuzione è plausibilmente ragionevole ritenere che tutti i soci abbiano, in assenza di validi elementi deponenti in senso contrario, partecipato in misura conforme al loro apporto sociale”.
 
Sulla base di tale principio, disatteso dai giudici di merito, la Corte ha ritenuto, pur in assenza di elementi probatori in senso opposto, che la sentenza impugnata dall’amministrazione finanziaria fosse da annullare sul punto.
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