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Giurisprudenza

Società con scritture irregolari. Paga il titolare non il contabile

Il commercialista può solo concorrere nella violazione di un obbligo che fa capo, però, all’ente e non è delegabile

Sanzioni fiscali all’azienda che ha una contabilità irregolare nonostante tali scritture siano state tenute dal commercialista. Lo ha stabilito la Corte di cassazione che, con l’ordinanza 3651 del 14 febbraio, ha accolto il ricorso dell’Amministrazione finanziaria precisando anche un altro fatto importante: la legittimità dell’accertamento induttivo anche a carico delle aziende che hanno un controllo sui flussi finanziari, come quelle soggette ai riscontri della Consob e all’Ufficio italiano dei cambi (Uic).

La vicenda
La controversia concerne un accertamento induttivo a carico di una Srl che opera nella commercializzazione dell’oro, contenente plurime contestazioni derivanti dall’omessa presentazione della dichiarazione annuale dei redditi, dall’inattendibilità delle scritture contabili nonché dalle risultanze degli accertamenti bancari effettuati sui conti correnti del socio.
Al rigetto del ricorso in primo grado, era seguito il capovolgimento del dictum della Commissione tributaria regionale, sulla scorta del dichiarato affievolimento delle contestazioni che così possono riassumersi:
  1. la dichiarazione annuale non era omessa ma regolarmente presentata
  2. la contabilità non poteva essere inattendibile poiché la vigilanza dell’Ufficio italiano cambi sull’attività di commercio dell’oro rappresenta una garanzia del corretto operato del soggetto
  3. i flussi finanziari sui conti del socio, per acquisire oggettiva validità, avrebbero dovuto essere supportati da altri elementi.

La Commissione aggiunge infine un altro punto importante, e cioè che la responsabilità per le irregolarità rilevate dal Fisco avrebbe dovuto essere imputata non al contribuente ma, semmai, al commercialista, tenutario delle scritture contabili.
L’opposizione dell’Amministrazione finanziaria scansiona le rilevate conclusioni.

La decisione della Cassazione
Delegittimando completamente le motivazioni della Commissione del riesame, la Sezione tributaria della Cassazione chiarisce che erroneamente i giudici di merito hanno escluso la responsabilità della società - a fini sanzionatori - in ordine all’irregolare tenuta delle scritture contabili, scaricandola sul consulente fiscale, che, tutt’al più, potrebbe essere un “concorrente” nell’illecito commesso dall’ente e per esso dal rappresentante legale. Trattandosi, infatti, di obbligazioni di carattere pubblico/sanzionatorio, esse non sono delegabili e, quindi, non è possibile addossare la responsabilità al professionista. Resta così confermato, in ultima analisi, che per i fatti (illeciti) fiscali il principio è che l’azienda con contabilità irregolare (in violazione degli articoli 14 e 22 del Dpr 600/1973) rischia di essere sanzionata anche se tali scritture siano state tenute dal depositario.

Al riguardo è stato deciso che, poiché l’obbligo della denuncia dei redditi incombe personalmente sul contribuente, nel caso in cui non sia presentata legittimamente, l’Amministrazione procede ad accertamento induttivo dei redditi ex articolo 39, Dpr 600/1973, senza che assumano rilievo le omissioni (anche di carattere penale) del commercialista cui non sia stato conferito l’incarico di presentare la dichiarazione sottoscritta dal contribuente né sia stato conferito un potere di rappresentanza nella dichiarazione in base all’articolo 8, comma 3, del Dpr 600/1973 (sentenza 17021/2002).

In relazione a quest’ultimo profilo, si ricorda come la Suprema corte (cfr sentenze 1198/2004 e 17579/2003) abbia sottolineato l’importanza di un accertamento in ordine all’esistenza di un’azione cosciente e volontaria ovvero commessa con dolo o quanto meno con colpa (nel rispetto del principio di colpevolezza).

Alla luce di ciò, si è reputato difficile imputare al contribuente la violazione di una regola di condotta nel caso in cui egli si rivolga a un consulente qualificato (commercialista iscritto all’Albo) mettendo a sua disposizione tutta la documentazione occorrente per il corretto adempimento degli obblighi fiscali. In simili casi, la mancanza di volontarietà (e di colpa) escluderebbe la responsabilità del contribuente; quella del professionista, invece, dovrebbe conseguire all’applicazione dell’articolo 10 del Dlgs 472/1997 (autore mediato).

Più di recente, tuttavia, in relazione alle gravi violazioni della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi e dell’omessa tenuta delle scritture obbligatorie, il giudice di legittimità, con ordinanze 1472/2010 e 12473/2010, ha ritenuto che “il contribuente... non può considerarsi esente da colpa per il solo fatto di avere incaricato un professionista delle relative adempienze, dovendo egli altresì allegare e dimostrare, al fine di escludere ogni profilo di negligenza, di avere svolto atti diretti a controllare la loro effettiva esecuzione, prova nel concreto superabile soltanto a fronte di un comportamento fraudolento del professionista, finalizzato a mascherare il proprio inadempimento”.

Sul punto occorre però sottolineare che, rispetto all’originario impianto del sistema sanzionatorio tributario (Dlgs 472/1997) - che prevedeva una rigorosa applicazione del principio, di derivazione penalistica, della personalizzazione della sanzione -, l’articolo 7 del Dl 269/2003 (riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie), in vigore dal 2 ottobre 2003, ha fortemente mitigato tale impostazione, prevedendo esplicitamente la responsabilità esclusiva della persona giuridica per la sanzione amministrativa, allorché questa sia relativa al rapporto fiscale della stessa persona giuridica (cfr anche Cassazione 22890/2006).

Ma non basta. Questa breve quanto pregnante pronuncia contiene un altro aspetto interessante, e cioè quello legato ai flussi finanziari e al controllo da parte dell’Amministrazione finanziaria nel caso di monitoraggio da parte della Consob e dell’Uic.
Sul punto, il Collegio rileva - correttamente - che se fosse vero quanto afferma la Commissione tributaria regionale, bisognerebbe escludere che in Italia si sia mai verificato un episodio di contrabbando d’oro, in considerazione della vigilanza svolta dall’ente competente. Tale affermazione è quindi palesemente errata in quanto la circostanza che talune attività siano soggette a vigilanza di appositi organi di controllo non significa affatto che i sottoposti non possano sfuggire ai dovuti riscontri. Tant’è, ad esempio, che l’esistenza della Consob o della Banca d’Italia non ha impedito – afferma la Corte – “la realizzazione di frodi epocali nel mondo delle società per azioni quotate in Borsa o nel campo bancario”.

Ma neppure è stata “azzeccata” dal secondo giudicante la questione dell’onere della prova vigente in materia di indagini finanziarie (accertamenti bancari), di cui agli articoli 51, comma 2, n. 2), Dpr 633/1972 (per l’Iva) e 32, comma 1, n. 2), Dpr 600/1973 (per le imposte sui redditi). Infatti, secondo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità (vedi sentenza 4589/2009 e ordinanza 23873/2010), nel processo tributario, nel caso in cui l’accertamento effettuato dall’ufficio finanziario si fondi su verifiche di conti correnti bancari, è onere del contribuente, a carico del quale si determina un’inversione dell’onere della prova, dimostrare che gli elementi desumibili dalla movimentazione bancaria non siano riferibili a operazioni imponibili, mentre l’onere probatorio dell’Amministrazione è soddisfatto, per legge, attraverso i dati e gli elementi risultanti dai conti predetti.
Invero, posto che in materia sussiste inversione dell’onere della prova, alla presunzione di legge (relativa) va contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale (Cassazione, sentenze 25365/2007, 20858/2007, 16720/2007, 13819/2007, 6743/2007, 19330/2006, 14675/2006, 18016/2005, 7267/2002 e 9103/2001).
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