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Giurisprudenza

Successione: debito incerto, deducibilità negata

Non abbattono la base imponibile le fideiussioni omnibus in favore di una società non ancora fallita

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Affinché una passività sia deducibile ai fini dell’imposta di successione, stante la previsione dell’articolo 20 del Dlgs 31 ottobre 1990, n. 346, è necessario che il debito sia esistente alla data dell’apertura della successione medesima, e che abbia pertanto i caratteri dell’attualità e della determinatezza dell’ammontare. Non risultano perciò deducibili le fideiussioni omnibus prestate dal defunto in favore di una società investita da istanze di fallimento, ma non ancora fallita al momento della sua morte. La determinazione, espressa nella sentenza n. 14 marzo 2007, è della Cassazione.

Sul piano civilistico, occorre considerare che il fideiussore, che non ha pagato il creditore prima della dichiarazione di fallimento del debitore principale, è considerato creditore condizionale per quanto concerne l’eventuale esercizio delle azioni di regresso nei confronti del debitore fallito; pertanto, va ammesso al concorso dei creditori con riserva, che potrà essere sciolta solo quando si sia verificato l’integrale soddisfacimento delle ragioni creditorie nel corso della procedura.
In quest’ultima, è consentito al giudice delegato comprendere con riserva tra i crediti ammessi i crediti condizionali e quelli per i quali non siano stati ancora presentati i documenti giustificativi.

Nella fattispecie oggetto della controversia, occorre evidenziare che, affinché il debito successorio potesse essere dedotto dall’imposta di successione, era necessario che possedesse i requisiti della certezza e della liquidità. Tale ultimo requisito difettava in capo al debito in questione, al momento dell’apertura della successione.
Il fideiussore, in vita, e i suoi coeredi potevano far valere in concorso con altri creditori il diritto di regresso finalizzato all’integrale soddisfacimento delle pretese creditorie, sul presupposto che in precedenza il credito fosse stato ammesso con riserva, in quanto condizionale, ai sensi dell’articolo 55 della legge fallimentare.

Secondo alcune precedenti pronunce, l’articolo 12 del Dpr n. 637/1972, poi trasfuso nell’articolo 20 del Dlgs n. 346/1990, nel richiedere, ai fini della deducibilità di una passività, che il debito sia esistente alla data di apertura della successione, postula che esso abbia i caratteri dell’attualità e della determinatezza dell’ammontare, essendo esclusivamente in tal caso configurabile un effettivo depauperamento dell’attivo ereditario.
Pertanto, in base alla vigente disciplina normativa, non è deducibile l’obbligazione fideiussoria contratta dal defunto, visto che nei rapporti interni con il debitore principale su costui grava il peso economico del debito, come palesato dagli istituti giuridici del regresso con surrogazione.

Alla luce della regolamentazione civilistica della garanzia personale, il fideiussore poteva esercitare, ove costretto all’adempimento, l’azione di regresso con surrogazione di tutti i diritti del creditore originario nei confronti del debitore principale e degli altri eventuali fideiussori coobbligati solidali.
La decisione impugnata dinanzi alla Suprema corte aveva sostanzialmente disapplicato il principio di diritto, stando al quale la fideiussione (anche omnibus) prestata dall’autore della successione può costituire una passività deducibile dall’asse ereditario se al momento dell’apertura della successione sussista l’insolvibilità del debitore garantito oppure in concreto l’impossibilità di esercitare l’azione di regresso; ne consegue che non è deducibile dall’attivo ereditario, ai fini dell’imposta di successione, un debito che non sia certo e liquido.


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