La controversia in esame trae origine dall'impugnazione di un avviso di accertamento con il quale l'agenzia delle Entrate, a seguito di una segnalazione della Guardia di finanza (che si basava su un'indagine penale dalla quale era emerso che il contribuente, responsabile del reato di corruzione impropria, aveva riscosso personalmente le somme illecitamente devolute da alcuni imprenditori a un partito politico), aveva assoggettato a tassazione, ai fini delle imposte dirette, i proventi illeciti.
Sia i giudici di primo grado che quelli d'appello dichiararono legittima la pretesa avanzata dal fisco, ritenendo che "la tangente" illecitamente riscossa per essere destinata a un partito politico è soggetta a tassazione, ai fini delle imposte dirette, per la persona che materialmente la percepisce.
Gli eredi del contribuente originario chiesero che fosse revocata la sentenza emessa dalla Commissione tributaria regionale, in quanto, successivamente alla predetta pronuncia, risultò falso l'unico elemento di prova su cui la sentenza revocanda si era fondata.
In particolare, gli eredi deducevano che era stato irrevocabilmente accertato dai giudici penali competenti che il contribuente non aveva mai ricevuto personalmente le tangenti in questione né aveva mai avuto la disponibilità di dette somme; pertanto, non poteva trovare applicazione l'articolo 14, comma 4, della legge 537/1993.
La Commissione adita rigettò il ricorso per revocazione e, per la cassazione della sentenza, gli eredi del contribuente propongono ricorso, lamentando:
- che i giudici di appello, in sede di ricorso per revocazione, avevano omesso di esaminare il punto relativo alla dedotta falsità delle prove su cui si fondava la sentenza da revocare
- che il contribuente, essendo solo un intermediario delegato a riscuotere, non aveva ricevuto le somme dai corruttori per sé stesso, bensì per riversarle alla segreteria di un partito politico.
Prima di esaminare la sentenza in commento, è opportuno ricordare, per quanto qui d'interesse, che l'articolo 14, comma 4, della legge 537/1993 prevede che nelle categorie reddituali elencate nell'articolo 6, comma 1, del Tuir, devono ricomprendersi i proventi illeciti se essi sono classificabili in una delle suddette categorie.
Questa norma è stata poi oggetto di una disposizione interpretativa contenuta nell'articolo 36, comma 34-bis, del decreto 223/2006 (Visco-Bersani): qualora i proventi di fonte illecita non siano riconducibili in una delle categorie di redditi previste dall'articolo 6, dovranno essere tassati come redditi diversi.
Tanto premesso, la Corte di cassazione ha rigettato il ricorso asserendo, in primo luogo, che l'affermazione posta a base della richiesta di revocazione si poneva in netto contrasto con quanto contenuto nella sentenza penale, dalla quale risultava, invece, che "il contribuente aveva ammesso esplicitamente di avere ricevuto dagli imprenditori, in occasione della vendita di immobili (…), illecite dazioni di denaro che poi versava alla segreteria del partito politico interessato".
Conseguentemente, posto che dai giudicati penali non emergeva l'asserita dichiarazione di falsità delle prove su cui si era fondata la sentenza da revocare, la Corte ha ritenuto che la percezione illecita del denaro (tangente) è sufficiente a giustificare la pretesa fiscale a carico di chi materialmente la percepisce e anche quando il reale destinatario delle somme pagate dai corruttori sia il partito politico e non il "mandatario", delegato a riscuotere, i proventi illeciti ricevuti sono tassati in capo all'intermediario.
In altri termini, ai fini della tassazione, è irrilevante che il percettore di tali somme voglia consegnarle al beneficiario designato in base agli accordi criminosi (invece che trattenerle nel proprio patrimonio), posto che l'articolo 14, sopra menzionato, non consente di distinguere tra somme ricevute per se stessi e somme ricevute per poi riversarle a terzi, né fra disponibilità precaria ed effettiva (cfr. Cassazione 1058/2008).
Proseguendo nelle proprie argomentazioni, i giudici di legittimità hanno, inoltre, ritenuto che i proventi illeciti vanno tassati in capo allo stesso intermediario che li ha percepiti, anche quando dal materiale probatorio raccolto in sede penale non emerga "in modo certo che i proventi illeciti siano entrati nella disponibilità del contribuente" (cfr. ex plurimis, Cassazione 16176/2000 e 9665/2000).
Infatti, il giudice tributario, a differenza del giudice penale, può utilizzare elementi presuntivi per accertare che le somme, percepite a titolo di tangente, siano entrate nella disponibilità dell'interessato, posto che "la valutazione della prova operata dal giudice penale, ai propri fini, non vincola necessariamente ed automaticamente il giudice tributario che, a differenza del primo, può utilizzare valide presunzioni anche in materia di disponibilità e conseguente tassabilità di proventi illeciti".
Come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, è dunque consentito al giudice tributario di tenere conto delle risultanze del processo verbale di constatazione con apprezzamento autonomo e la decisione del giudice penale non è vincolante in sede tributaria, essendo i due giudizi caratterizzati da autonomia e indipendenza reciproca.
Al riguardo, va aggiunto che in altre sentenze i giudici di legittimità hanno sostenuto che "l'efficacia vincolante del giudicato penale non opera nel processo tributario e, quindi, l'esistenza di un giudicato penale favorevole al contribuente non impedisce al giudice tributario una motivata valutazione dei fatti favorevole all'Amministrazione" (cfr. ex multis, Cassazione 12577/2000, 9109/2002, 8102/2003, 10269/2005).
In conclusione, la Corte ha ritenuto legittimo l'assoggettamento dei proventi derivati da fatti o atti illeciti, sulla base della considerazione che la presunta disponibilità di somme di denaro di provenienza illecita (fra l'altro, nel caso di specie, esplicitamente ammessa in sede penale) risultasse sufficiente a giustificare l'esigibilità del tributo.