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Giurisprudenza

Transfer pricing domestico:
sì al criterio del valore normale

Legittima la rettifica dei prezzi di trasferimento delle transazioni tra una società controllante e la controllata residente e beneficiaria delle agevolazioni per il Mezzogiorno

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La questione di fatto oggetto della pronuncia della Cassazione n. 17955/2013 è la contestazione - ritenuta infondata da entrambi i giudici di merito - dell’ufficio finanziario dell’antieconomicità del ricarico del 4% (in luogo di quello del 10,09%) applicato alle cessioni effettuate da una società residente controllante di altra società parimenti residente (poi incorporata per fusione) beneficiaria delle agevolazioni fiscali in tema di imposte dirette previste per il Mezzogiorno.
Più precisamente, il giudice di seconda istanza aveva affermato che il godimento dei benefici fiscali non esclude la legittimità di politiche aziendali dirette ad agevolare ulteriormente l'espansione dell'attività nel meridione d'Italia, e, quindi, che “il ricarico minimo applicato dalla controllante alla controllata bene poteva rappresentare <strumento di incremento anche occupazionale e sociale oltreché aziendale>, con esclusione di qualsivoglia intento elusivo”.
 
Nel giudizio di legittimità, la difesa erariale ha opposto la violazione dell'articolo 9, comma 3, del Tuir (anche nella versione post 2004), sostenendo che il criterio legale del valore normale delle operazioni infragruppo “rileva non solo nei rapporti internazionali di controllo, ma anche in analoghi rapporti di diritto interno, ogniqualvolta con la fissazione di un prezzo fuori mercato si miri a far emergere utili presso la società del gruppo che sconta, anche per agevolazioni territoriali, la più bassa tassazione”.
 
La legittimità dell’applicazione del criterio del valore normale alle transazioni intervenute tra società dello stesso gruppo residenti è stata riconosciuta dai giudici di legittimità, ancorché si sia dato atto che solamente nei rapporti internazionali infragruppo è ammessa tale rettifica in base al combinato disposto dell'articolo 110, comma 7, del Tuir (nel testo vigente, mentre ante 2004 cfr l’articolo 76) e dell'articolo 9, comma 3, che legittima l’ufficio finanziario a disattenderne prezzi e corrispettivi, in virtù del valore corrente dei beni e/o servizi scambiati, e a rettificare i dati reddituali con aumento dell'imponibile.
In buona sostanza, è stata recepito l’orientamento dell'Amministrazione finanziaria espressa nella circolare del ministero delle Finanze 26 febbraio 1999, n. 53, volto a contrastare la contrazione dell'utile per l'impresa controllante residente nel settentrione d’Italia soggetto alle aliquote ordinarie al fine di ampliare l'utile dell'impresa meridionale (beneficiaria delle agevolazioni fiscali previste per le società ivi costituite) proprio per effetto della cessioni di beni a un prezzo inferiore al valore normale desumibile dall'articolo 9, comma 3.
La nozione di valore normale ex articolo 9, comma 3, è individuata quale “il prezzo o il corrispettivo mediamente praticato per i beni e i servizi della stessa specie o similari, in condizioni di libera concorrenza e al medesimo stadio di commercializzazione”, per la determinazione della quale debba farsi “riferimento, per quanto possibile, ai listini o alle tariffe del soggetto che ha fornito i beni o i sevizi... tenendo conto degli sconti d'uso”.
 
Il dato formale viene superato nell’applicare l’abuso del diritto alla rettifica dei prezzi di trasferimento infragruppo residente, seppure la giurisprudenza di Cassazione, invero, non appare così granitica, come emerge dalla sentenza 20 dicembre 2012, n. 23551, ove si è affermata l’esclusione che possa farsi ricorso al criterio del “valore normale” nel trasferimento, per così dire “interno”, della merce tra due società, entrambe residenti e facenti parte dello stesso gruppo e operanti nella stessa fase di commercializzazione (“all'ingrosso”).
A tal proposito, la decisione in rassegna, nel riconoscere che “almeno sino all'introduzione del c.d. consolidato nazionale nell'ordinamento tributario, erano diffuse operazioni aziendali di tipo difensivo che, nate per la più conveniente allocazione dell'imponibile tra le società associate in Italia, sono sfociate in vere e proprie operazioni elusive”, legittima l’esistenza di prezzi di trasferimento infragruppo residente non contestabili in mancanza di prova dell’assenza di valide ragione economiche della transazione effettuata per quel corrispettivo.
 
Sul punto, emerge la decisione della Suprema corte 31 marzo 2011, n. 7343, ove si era rilevato come, poiché ai fini dell’applicazione della disciplina del transfer pricing gli sconti d’uso rilevanti per la determinazione del valore normale devono essere individuati unicamente in quelli applicati nelle operazioni con soggetti terzi, tali sconti sono suscettibili di essere ripresi a tassazione solamente se applicati alle transazioni infragruppo e non anche nei rapporti con soggetti terzi.
 
In tale prospettiva ermeneutica, la decisione della Corte regolatrice del diritto in commento fa riferimento all’elaborazione giurisprudenziale dell’abuso del diritto, il quale preclude al contribuente di conseguire vantaggi fiscali tramite “l'uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei a ottenere agevolazioni o risparmi d'imposta, in difetto di ragioni diverse dalla mera aspettativa di quei benefici”.
Infatti, come noto, la legittimità della rettifica in base al principio del divieto dell’abuso del diritto è stata rinvenuta vuoi nella disciplina comunitaria dei tributi armonizzati volta alla “salvaguardia delle risorse proprie dell'UE”, vuoi nei principi costituzionali di capacità contributiva e imposizione progressiva, per i tributi di disciplina nazionale.
 
L’eventuale violazione del principio della riserva di legge è stata negata dalla giurisprudenza nazionale di legittimità, imponendosi il “disconoscimento di effetti abusivi di negozi posti in essere allo scopo di eludere l'applicazione di norme fiscali” nelle sentenze, citate da questa in commento, a sezioni unite 23 dicembre 2008, n. 30055, e le identiche n. 30056 e n. 30057).
Sul tema è stata citata anche la pronunciata della Corte di giustizia Cee 9 giugno 2011, n. 28, per la quale, invece, ai sensi dell’articolo 11, parte A, n. 1, lettera a), e dell’articolo 27 della direttiva Cee n. 388/1977, la cessione di beni intercorsa tra due imprese appartenenti a uno stesso gruppo, per un corrispettivo inferiore all’effettivo prezzo di mercato, deve ritenersi conforme al diritto comunitario, non potendo nella specie applicarsi la norma interna di uno Stato membro che – senza aver ottenuto la preventiva autorizzazione del Consiglio – stabilisca in tali casi modalità diverse di determinazione del corrispettivo.
 
In tema di onere probatorio, la sentenza della Suprema corte 13 luglio 2012, n. 11949, ha affermato che l'onere della prova grava sull'Amministrazione per quanto attiene allo scostamento tra il corrispettivo pattuito e il valore normale dei beni o dei servizi scambiati, secondo le regole generali di cui all'articolo 2697 cc, e sul contribuente con riferimento all'esistenza e all'inerenza dei costi nonché a ogni elemento che consenta all'ufficio di verificare il normale valore dei corrispettivi, in forza del principio di vicinanza della prova.
Tale principio vale per la rettifica del transfer price internazionale, mentre per quanto attiene alla rettifica dei prezzi di trasferimento “interno”, l’onere di tale dimostrazione grava in toto sull’ufficio finanziario, come statuito dalla sentenza del Supremo collegio, citata da questa in nota, 13 ottobre 2006, n. 22023, anche riguardo l’assenza di valide ragioni economiche.
 
Da tale impostazione emerge il principio di diritto fissato dalla sentenza in rassegna, secondo cui “per la valutazione delle manovre sui prezzi di trasferimento interni - costituenti il c.d. transfer pricing domestico - va applicato il principio, avente valore generale, stabilito dall’art.9 del TUIR (ante 2004) che non ha soltanto valore contabile e che impone, quale criterio valutativo, il riferimento al normale valore di mercato per corrispettivi e altri proventi, presi in considerazione dal contribuente”.
 
In ultima sintesi, non pare che la certezza del diritto venga assicurata se, da un canto, si afferma che “non si può escludere che considerazioni di strategia generale inducano le imprese a compiere operazioni di per sé stesse antieconomiche in vista ed in funzione di altri benefici”, ma d’altro canto si afferma pure che “Tuttavia occorre che le varie operazioni rispondano a criteri di logica economica, i quali, a loro volta, devono essere funzionali a meccanismi di mercato in regime di libera concorrenza (arm's lenght principle), giammai a elementi distorsivi del mercato e della concorrenza”.
 
a cura di Giurisprudenza delle imposte edita da ASSONIME
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