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Giurisprudenza

“Trust” estinto, debiti saldati:
quello che rimane è del “trustee”

È reddito dell’amministratore dal momento in cui egli ha “piena disponibilità” dei suoi compensi, mentre è irrilevante la perdita della stessa da parte di chi paga

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Per l’imputazione dei componenti positivi al professionista, conta il momento in cui egli acquisisce la disponibilità delle somme, mentre appare ininfluente l’eventuale diverso momento in cui la stessa viene persa da parte di chi effettua i pagamenti.
Così, l’amministratore di un trust ormai estinto non può invocare di essere un mero creditore dell’ente, mantenuto in vita fraudolentemente, quando, invece, è il titolare vero e proprio delle somme residue.
Queste le conclusioni della Corte di cassazione, nella sentenza n. 24533 del 5 giugno 2013.
 
I fatti
Un tribunale piemontese accoglieva la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo per equivalente di beni nella disponibilità di un indagato: detto sequestro era finalizzato alla confisca obbligatoria del profitto del delitto di dichiarazione fraudolenta mediante artifici – ex articolo 3 Dlgs 74/2000 – in relazione all’omessa dichiarazione di redditi, percepiti a titolo di compenso professionale, quale amministratore fiduciario di un trust.
Secondo il tribunale, l’indagato non era ancora venuto in possesso del reddito da compenso professionale, limitandosi a gestire, quale amministratore fiduciario il patrimonio separato del trust, provvedendo ad adempimenti fiscali e al compenso di professionisti, senza attingervi per la riscossione del proprio credito professionale. Pertanto, non si poteva ipotizzare un obbligo di dichiarare al Fisco redditi non ancora entrati nella sua disponibilità, sia pure in forza di una sua scelta. Inoltre, sempre a giudizio del tribunale, il fatto che l’indagato fosse autorizzato a prelevare l’intero saldo residuo dal conto non valeva a snaturare il suo credito, sempre di natura professionale.
 
Le censure della Procura
Ricorreva per cassazione il Pm competente, lamentando che, dopo la liquidazione dei beneficiari, il residuo del trust si identificava esclusivamente con il patrimonio personale dell’indagato, il quale manteneva in vita un soggetto giuridico che non esisteva più, al solo fine di evitare controlli fiscali sulla sua persona. Evidenziava, poi, la costituzione di una società, da parte dell’indagato, al solo scopo di mantenere occultata la descritta somma e di reimpiegarla in Italia. Argomentava, inoltre, riguardo un’erronea applicazione del concetto di “reddito”: secondo la Procura, infatti, non sarebbe necessario, ai fini della percezione del compenso, il formale trasferimento della somma sul conto corrente dell’indagato.
 
La pronuncia
Nel ritenere fondato il ricorso, la Cassazione richiama l’articolo 54, comma 1, del Tuir. Tale norma stabilisce che i redditi da lavoro autonomo vanno dichiarati secondo il principio di cassa, che prevede l’imputazione dei compensi nel momento in cui il professionista consegue la disponibilità delle somme. In particolare, per i bonifici bancari, si attribuisce rilievo al momento in cui il denaro risulti posto a disposizione del professionista, sulla base della contabile bancaria (così, anche la prassi, cfr circolare 38/E del 2010).
 
La Corte concorda con la tesi del Pm, anche nella misura in cui la disponibilità materiale del compenso professionale già esisteva successivamente alla liquidazione dei beneficiari e l’indagato poteva disporne liberamente, tanto da farla confluire su conti correnti di una società appositamente costituita.
Il trust era di fatto “estinto”: l’indagato era solo formalmente un creditore di tale ente, ma sostanzialmente era il titolare della somma posta sul conto del trust, avendone la massima libertà di incasso e di gestione. Il tribunale, invece, faceva dipendere dal mero arbitrio del contribuente il momento in cui far scattare il presupposto dell’obbligazione tributaria.
 
Osservazioni
I giudici aderiscono a un principio sostanzialistico in materia di segregazione patrimoniale.
Il trust – va contemperato – rappresenta un negozio “di scopo”, poiché la sua “vita giuridica” è dettata proprio dal fine fondante la sua costituzione.
Nel caso in esame, il trust, attesa la liquidazione dei beneficiari, era rimasto sprovvisto di causa. Pertanto, la titolarità formale in capo al trustee era diventata una proprietà vera e propria del residuo, percepito a titolo di compenso per la sua attività di amministratore.
 
In conclusione, l’ordinamento – tributario, ma prima ancora civilistico – non può accettare che permangano in vita negozi privi di ragione giustificatrice, a maggior ragione se essi abbiano lo scopo fraudolento di sottrarre somme a tassazione: da qui, l’eliminazione dello “schermo” del trust da parte della Cassazione, che ha imputato le somme direttamente in capo al professionista.
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