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Giurisprudenza

Un'occasione per meditare sui limiti interni ed esterni alla giurisdizione delle Commissioni tributarie e sull'autotutela (3)

L'autotutela e il "dove difendersi": alla ricerca del giudice competente. L'impugnabilità del diniego di autotutela: una possibile ipotesi ricostruttiva sul se e sul dove impugnare

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L'autotutela e il "dove difendersi": alla ricerca del giudice competente
Preliminarmente, va detto che la sentenza della Cassazione n. 16776 del 9 giugno 2005 offre, del nuovo volto della giurisdizione tributaria, una lettura indubbiamente innovativa, affermando, per la prima volta in sede di legittimità, la giurisdizione delle Commissioni tributarie in tema di diniego di autotutela, inserendosi così in una tendenza innegabilmente evolutiva.
Nella fattispecie rappresentata dinanzi alla Corte, l'Amministrazione aveva provveduto ad annullare, in via di autotutela, una cartella esattoriale, constatando la rinuncia del contribuente al credito esposto in dichiarazione e corrispondente all'imposta richiesta con l'avviso di rettifica (per non aver il contribuente provveduto al calcolo della percentuale di indetraibilità riferita a una serie di operazioni esenti). L'atto impositivo era, invece, rimasto in piedi nella parte relativa alla irrogazione delle sanzioni; in particolare, a fronte dell'eccezione del contribuente che riteneva aver sanato le violazioni aderendo al condono di cui all'articolo 8 della legge 154 del 1991, l'ufficio sosteneva l'inefficacia della sanatoria in quanto riconduceva le violazioni tra quelle di natura sostanziale, per le quali la procedura di definizione concordata non era ammissibile.
Chiamata a pronunciarsi preliminarmente sulla questione del difetto di giurisdizione, la Cassazione ha respinto l'eccezione dell'Amministrazione e si è pronunciata a favore della competenza del giudice speciale.

La sentenza perviene all'affermazione de qua argomentando dalla non tassatività degli atti impugnabili indicati dall'articolo 19 e dei necessari adattamenti che s'impongono nell'interpretazione della norma dopo l'ampliamento della giurisdizione tributaria.
In questo senso, il passo più significativo della sentenza è quello in cui si legge "La riforma del 2001 ha poi necessariamente comportato una modifica dell'art. 19 del D.Lgs. n. 546/1992; l'aver consentito l'accesso al contenzioso tributario in ogni controversia avente ad oggetto tributi, comporta infatti la possibilità per il contribuente di rivolgersi al giudice tributario ogni qual volta l'Amministrazione manifesti (anche attraverso la procedura del silenzio-rigetto) la convinzione che il rapporto tributario (o relativo a sanzioni tributarie) debba essere regolato in termini che il contribuente ritenga di contestare (in assenza di simile manifestazione di volontà espressa o tacita non sussisterebbe l'interesse del ricorrente ad agire in giudizio ex art. 100 del codice di procedura civile)".
L'iter, quindi, non è diverso da quello seguito altre volte dalla Cassazione, partendo dal progetto della giurisdizione unica e per materia voluta dal legislatore della riforma del 2001; tuttavia, nella sentenza in esame sembra che i giudici vadano oltre, ipotizzando un'implicita abrogazione della disposizione dell'articolo 19.

Ed è qui che sorge la difficoltà, anche per chi scrive, di delimitare bene la portata delle affermazioni della Corte. Ci si trova, infatti, in una sorta di tensione tra l'apprezzabile sforzo evolutivo della Cassazione e la necessità di rispettare il dato letterale di una norma (quella dell'articolo 19) che non ha ancora subito alcuna modifica da parte del legislatore.
Resta il fatto che l'affermazione di principio della sentenza dà seguito a un orientamento, formatosi univocamente presso i Tar (si veda, ad esempio, Tar dell'Emilia Romagna 28 gennaio 2005, n. 114) e presso alcune Commissioni tributarie (si veda Ctp Matera 15 marzo 2004, n. 15), che già individuava il giudice competente nel giudice speciale, sulla base della ripartizione "per materia".

Se la sentenza 16776 della Corte di Cassazione si fosse chiusa a questo punto, si sarebbe potuto parlare di rivoluzionaria novità in materia di autotutela; invece la Corte chiude con un'affermazione tanto generica quanto difficilmente interpretabile.
Nella sentenza si legge infatti "Altra e diversa questione, di competenza appunto del giudice tributario, è stabilire se quel rifiuto sia o meno impugnabile, così come valutare se con l'istanza di autotutela il contribuente chieda l'annullamento dell'atto impositivo per vizi originari di tale atto (...) o per eventi sopravvenuti".
Ed è qui che si ravvisa l'inversione dell'ordine di risoluzione delle questioni cui prima si è fatto cenno.
Ci si sarebbe aspettati, in altre parole, che la Cassazione prima risolvesse il "se", per poi proseguire, in caso di risposta positiva, con qualsivoglia argomentazione in ordine al "dove". Resta, così, in capo al giudice tributario ogni potere di decidere della impugnabilità dello specifico rifiuto, in assenza di qualsiasi criterio idoneo a orientare una simile scelta, eccezione fatta per quel cenno, altrettanto generico e difficilmente comprensibile, ai "vizi originari ed agli eventi sopravvenuti".

L'impugnabilità del diniego di autotutela: una possibile ipotesi ricostruttiva sul se e sul dove impugnare
I rilevi già evidenziati nel precedente paragrafo, meritano, da ultimo, qualche riflessione.
Un primo profilo, che peraltro, sembra prevalente nel pensiero della stessa Corte di cassazione, è, come anticipato, l'affermazione della sussistenza della giurisdizione tributaria rispetto a un atto, il diniego di autotutela, non ricompreso nell'elencazione dell'articolo 19 e non assimilato, in via interpretativa, ad alcuno di quelli individuati dal legislatore. Abbiamo già evidenziato la difficoltà di contestualizzare il principio di diritto della sentenza, a metà strada tra l'entusiasmo per gli interventi "correttivi" della Cassazione e la perplessità che una simile opzione sia conforme ai principi e alle regole che presiedono all'attività dello stesso giudice.

Non c'è dubbio che, da un lato, l'affermazione della giurisdizione tributaria nella materia de qua attribuisce dignità a una riforma, quella della legge 448 del 2001, le cui intenzioni erano nel senso del giudice unico, competente per materia. E' inutile sottolineare come, nella concreta attuazione, i limiti interni abbiano mortificato il ruolo del giudice tributario, andando incontro, peraltro, a serie difficoltà di coordinamento con le "concorrenti" giurisdizioni. D'altro canto, però, non può sottacersi il pericolo sotteso a un'interpretazione di questo tipo che, oltre che travalicare i poteri del giudice di legittimità, porta a un'abrogazione delle norme, in assenza di qualsiasi garanzia legislativa. Un conto è, infatti, arrivare, nell'applicazione dell'articolo 19, fin dove i limiti dell'interpretazione (anche estensiva) consentono, attraverso l'analisi degli effetti e dello scopo dell'atto; altro è, invece, ipotizzare un superamento tout court della disposizione.
Diverso sarebbe stato, ad esempio, se la sentenza avesse riconosciuto la competenza giurisdizionale delle Commissioni attraverso una (forse discutibile) assimilazione del diniego parziale di autotutela a uno degli atti ricompresi nell'elencazione dell'articolo 19.

Non meno importante è tentare qualche riflessione in ordine all'altro problema analizzato dalla Cassazione, in ordine alla impugnabilità del diniego di autotutela. La sentenza, con un piglio decisamente politico, rifiuta di prendere posizione sul problema più spinoso, peraltro preliminare rispetto a qualsiasi valutazione in ordine al giudice competente, quello, cioè, della tutelabilità della posizione giuridica vantata dal contribuente a fronte del potere di autotutela. Il riconoscimento, in capo al privato, di una posizione di interesse legittimo o di diritto soggettivo da un lato o piuttosto di interesse di mero fatto dall'altro muta considerevolmente i termini del problema.
E' difficile esemplificare, in un breve contributo, le argomentazioni che nel pensiero della dottrina sostengono le differenti tesi; così come è difficile analizzare le sentenze della Cassazione in cui, flebilmente, si affaccia e si risolve il tema.
Non può ignorarsi che una parte della dottrina e molte sentenze della Cassazione stessa, muovendo dalla natura discrezionale dell'autotutela anche in capo all'Amministrazione finanziaria, abbiano negato la possibilità di ricorso al giudice nei casi di mancato esercizio del potere.
Il rischio paventato, in questi casi, è quello di una inutile, oltre che pericolosa, duplicazione della tutela che si sarebbe potuto e dovuto attivare contro l'atto originario con l'impugnazione nelle sedi e nei tempi previsti dalla legge. In altre parole, il sindacato sul mancato esercizio del potere di autotutela rischierebbe di minare le fondamenta del processo tributario, offrendo un rimedio sicuro (e differibile sine die) alle rigide decadenze della disciplina del contenzioso.

D'altro canto, però, l'affermazione della sentenza 16776, secondo cui il giudice tributario deve decidere se l'atto è o meno impugnabile, lascia aperto qualche dubbio in ordine alla possibilità di individuare ipotesi in cui un sindacato ulteriore è possibile. Il provvedimento di diniego dell'autotutela, infatti, potrebbe essere emesso all'esito di una nuova istruttoria e rivelarsi, in questo senso, non meramente confermativo dell'atto precedente, reiterando o rinnovando un effetto impositivo. E qui, è innegabile che lo spazio per un nuovo giudizio sembra potersi aprire.
Non c'è dubbio, tuttavia, che la possibilità, per il contribuente, di valutare la convenienza dell'impugnazione, in funzione dell'esistenza o meno di una nuova istruttoria è una strada teoricamente percorribile, ma praticamente abbastanza difficile da realizzare.
La natura meramente confermativa, infatti, secondo questa accezione, non dipende dal contenuto del provvedimento (che potrebbe anche essere uguale al precedente atto oggetto di autotutela), ma dagli elementi valutati dall'ufficio ai fini della decisione finale.

Peraltro, questa soluzione è anche quella che pare, a una prima lettura, in linea con l'ipotizzata distinzione tra vizi originari ed eventi sopravvenuti.
I vizi originari sono tutti quelli che il contribuente avrebbe dovuto far valere in sede di impugnazione dell'atto, con appositi motivi e sui quali è maturata la decadenza dal potere di proporre ricorso (eventualmente) intervenuta; per cui, stante la più volte dichiarata natura indisponibile delle norme che fissano decadenze (in funzione di interessi superiori dell'ordinamento), la riproposizione di queste censure contro il diniego di autotutela non sembrerebbe più possibile.
Gli eventi sopravvenuti potrebbero identificarsi, invece, con tutti gli elementi della "nuova" istruttoria dell'Amministrazione, che consentono un ripensamento della pretesa espressa in precedenza (quale, ad esempio, per restare alla fattispecie descritta nella sentenza, la sopravvenuta sanatoria in ordine alle sanzioni).
In questo modo, non si ripropone il rischio, prima evidenziato, del superamento di decadenze o della pericolosa duplicazione della tutela del contribuente.

Anche un'ipotesi ricostruttiva di questo tipo lascia, tuttavia, i suoi dubbi; in primo luogo, non aggiunge alcun elemento alla difficile individuazione della posizione giuridica vantata dal contribuente che, secondo l'insegnamento tradizionale, si basa sulla natura del potere esercitato; in secondo, rende alquanto difficile, per il privato, una valutazione in ordine alla opportunità di proporre ricorso, considerando che, fuori dai casi eclatanti del condono, la distinzione tra elementi nuovi ed elementi già valutabili in sede di emanazione del primo atto non è sempre agevole.

3 - fine. Le prime due puntate sono state pubblicate martedì 15 e giovedì 17

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