I documenti prodotti irritualmente, per tardività o per la provenienza da soggetti terzi, sono utilizzabili nel processo tributario, in quanto tale facoltà rientra tra i poteri istruttori del giudice tributario di cui all'articolo 7 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546, e come tale è esercitabile d'ufficio.
Quest'importante principio emerge dalla sentenza n. 3231 del 15 dicembre 2004, depositata il 17 febbraio 2005, emanata dalla Corte di cassazione, con la quale è stato affermato che tale facoltà di ordinare alle parti processuali il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia deriva dal potere istruttorio riconosciuto alle Commissioni tributarie di cui al primo comma del citato articolo 7 del Dlgs 546/1992, che, in quanto esercitabile d'ufficio, è un potere derogatorio al principio dispositivo vigente in ambito tributario in tema di prova.
Il rito tributario, che è ispirato al principio dispositivo in virtù del richiamo che l'articolo 1 del Dlgs 546/1992 fa dell'articolo 115 del c.p.c. ("Disponibilità delle prove"), subisce comunque la deroga del potere istruttorio d'ufficio del giudice di merito, che è limitato ai fatti dedotti dalle parti. Sull'argomento, la dottrina, nell'affermare che il processo tributario è retto dal principio dispositivo per quanto concerne l'allegazione dei fatti rilevanti, ritiene che sussista il principio "inquisitorio" per ciò che riguarda la prova degli stessi: è riconosciuta tendenzialmente la natura inquisitoria in materia di iniziativa istruttoria. Il giudice tributario ha facoltà di esercitare i poteri istruttori in relazione ai fatti dedotti dal ricorrente nel ricorso o dal resistente nella memoria di costituzione, dovendosi distinguere tra allegazione e prova: le parti a sostegno del thema decidendum hanno l'onere di esporre e indicare il thema probandum.
Il legislatore tributario, pertanto, ha fatto proprio il principio della disponibilità delle prove consacrato al citato articolo 115 c.p.c., in base al quale il giudice ha l'obbligo di decidere iuxta alligata et probat, dovendo risultare la decisione tratta unicamente dalle allegazioni delle parti, ovvero dalle circostanze di fatto dedotte a fondamento della domanda o dell'eccezione, nonché dalle prove fornite dalle parti stesse. Tale norma tende ad assicurare il rispetto dei principi fondamentali della difesa e del contraddittorio tra le parti, impedendo che una parte possa subire una decisione basata su fatti a essa sconosciuti e sui quali non si sia potuta difendere.
Il principio dispositivo vigente in ambito civile, non è assoluto nel processo tributario, ma subisce delle deroghe(1): infatti, la verifica dei fatti dedotti dalle parti ovvero il riscontro delle prove offerte dalle parti non equivale a tollerare qualsiasi difetto originario di prova, nella fase di accertamento del presupposto, e ammettere qualsiasi deficienza processuale, imputabile al contribuente o all'ufficio. Non è consentito alla Commissione tributaria acquisire d'ufficio prove, su fatti diversi da quelli contenuti nel ricorso introduttivo, ovvero continuare l'indagine nella deduzione dei fatti sostituendosi alle parti; è invece permesso l'esercizio di poteri istruttori nell'ambito dei fatti dedotti al fine di apportare nuovi elementi utili per la decisione finale.
A sostegno di quanto precede, si osserva che il giudice tributario, a fronte del mancato assolvimento dell'onere probatorio da parte del soggetto onerato, non è tenuto ad acquisire d'ufficio le prove, in forza dei poteri istruttori a lui attribuiti dal citato articolo 7 del Dlgs 546/1992: infatti, tali poteri sono meramente integratori dell'onere probatorio principale, in quanto utilizzati soltanto qualora sia impossibile o difficile fornire le prove da parte del soggetto che vi è tenuto (Cassazione 7 febbraio 2001, n. 1701). La parte, quindi, ha l'onere processuale di dare al giudice ogni prova idonea a suffragare la validità della propria pretesa, mentre il giudice tributario ha da parte il potere di disporre accertamenti; la Commissione tributaria non è soggetta all'obbligo di ordinare il deposito di documenti (ad esempio, il processo verbale della Polizia tributaria) allorché le parti abbiano specificato il thema probandum.
Nel giudizio tributario, l'esercizio dei poteri di acquisizione d'ufficio, riconosciuti dall'articolo 7 del Dlgs 546/1992 alle Commissioni tributarie, è una mera facoltà discrezionale del giudice di cui va fatto un uso prudente, risultando che tali poteri non hanno la funzione di sopperire a deficienze probatorie delle parti; nel caso in cui la situazione probatoria non consenta la pronuncia di una sentenza ragionevolmente motivata, la giurisprudenza ritiene illegittimo il rifiuto del giudice tributario di utilizzare tali poteri (Cassazione, sentenza 9 maggio 2003, n. 7129).
Nella fattispecie portata al vaglio della suprema Corte nel caso che occupa, emerge che il concessionario della riscossione, costituitosi nel giudizio di primo grado, è risultato successivamente estromesso per difetto del mandato al procuratore, mentre l'ufficio finanziario (appellante incidentale) ha presentato istanza per avvalersi delle prove documentali prodotte in primo grado dal concessionario. A termini di mera procedura, essendo l'impugnazione proposta da altra parte che non è l'appellante principale (articolo 343, comma 2, c.p.c.) ovvero l'appello dell'ufficio, ha determinato il sorgere di un interesse a proporre un ulteriore appello incidentale da parte dell'appellante principale, al fine di resistere all'appello dell'ufficio e di contestare il diritto di quest'ultimo ad avvalersi della documentazione prodotta tardivamente da un terzo: eventualità che nella realtà non si è verificata, in quanto tale interesse non è stato curato dal contribuente nel grado di appello.
Tornando alla derogabilità del principio dispositivo operante nel processo tributario, questa può operare allorché si debbano esaminare questioni rilevabili d'ufficio ovvero l'ammissibilità del ricorso introduttivo: emerge che l'ufficio, anche se la prima volta in appello, ha dedotto il fatto dell'inammissibilità del ricorso introduttivo e ciò autorizza la Commissione tributaria a esercitare d'ufficio il potere istruttorio di cui all'articolo 7 del Dlgs 546/1992, e, in particolare, il potere di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia (articolo 7, comma 3)(2).
Nel caso in esame, erano già stati acquisiti dei documenti (avvisi di mora, notificati in precedenza) di cui la Commissione tributaria, sia di primo che di secondo grado, avrebbe potuto rendere oggetto di un ordine di produzione nei confronti dell'ufficio. Quanto precede, hanno rilevato i giudici, rende irrilevante l'irritualità della loro acquisizione sia dal lato della tardività che della loro provenienza da un soggetto che si era proposto come parte del giudizio tributario di primo grado (concessionario), posizione poi negata.
NOTE
1. Cfr. Cassazione 23 dicembre 2000, n. 16176. Nel processo tributario l'applicazione del principio dispositivo non è rigorosa; infatti, per quanto riguarda la prova dei fatti dedotti dal contribuente, l'iniziativa della parte può essere sostituita o integrata da quella del giudice, in osservanza del disposto dell'articolo 7 del Dlgs n. 546 del 1992.
2. Circolare ministeriale 23/4/1996, n. 98/E. Tra i documenti che possono essere richiesti ai contribuenti, ci cono le scritture contabili, la cui regolare tenuta è prevista dalla legge come obbligo per molti contribuenti. Il rifiuto di esibire i documenti richiesti può essere interpretato dal giudice, il quale può desumere argomenti di prova a noma degli articoli 116 e 118 c.p.c.
Utilizzabili dal giudice i documenti depositati da parte estromessa
Rientra tra i poteri d'ufficio disporne l'acquisizione
