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Giurisprudenza

Il versamento a rate dell’Iva omessa
abbassa il debito, ma il reato resta

Il pagamento dilazionato della somma non cancella il delitto commesso. Confermata la punibilità del mancato assolvimento del tributo per un importo oltre la soglia penale

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Con la sentenza n. 24185 del 4 giugno, la Cassazione, rigettando il ricorso proposto da un imprenditore e confermando un orientamento ormai consolidato della giurisprudenza di legittimità, ha stabilito che, in relazione al reato di omesso versamento dell’Iva (articolo 10-ter del Dlgs 74/2000), è legittimo il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente anche se, a seguito del versamento di alcune rate da parte del contribuente, il debito fiscale scende sotto la soglia di rilevanza penale (pari a 50mila euro).
 
La vicenda processuale
Un contribuente ometteva il versamento dell’Iva per un importo superiore alla soglia penale: il tribunale di Brindisi, su richiesta della procura della Repubblica, disponeva quindi il sequestro preventivo, finalizzato a un’eventuale confisca, di beni mobili registrati e denaro per una somma equivalente al profitto derivato dalla predetta condotta illecita.
Investita una prima volta della questione, la Cassazione annullava con rinvio il provvedimento; in particolare, veniva chiesto ai giudici di merito un ulteriore approfondimento ovvero di verificare, con una tipica valutazione di fatto, quale fosse l’iniziale quantificazione dell’imposta evasa (cioè, non versata), tenuto conto che c’erano state alcune vicende (sgravi parziali dell’Amministrazione finanziaria, nonché versamenti rateali da parte del contribuente) che avevano portato l’imposta dovuta al di sotto della soglia di punibilità.
 
Decidendo in sede di rinvio, il tribunale confermava il provvedimento di sequestro. Secondo i giudici di merito, infatti, l’Agenzia delle Entrate non aveva ridotto l’originaria pretesa tributaria in forza di un concordato o di un accertamento con adesione, ma aveva semplicemente rideterminato il nuovo importo a debito (di poco inferiore alla soglia penale) tenendo conto del pagamento di due rate da parte del contribuente, pagamento avvenuto circa due anni dopo il termine stabilito dalla legge.
Inevitabile, quindi, la proposizione di un nuovo ricorso per cassazione: con esso il contribuente lamentava il fatto che i giudici del rinvio si erano discostati, nelle loro valutazioni, dai principi desumibili dalla sentenza di legittimità. Secondo il ricorrente, la prima pronuncia della Cassazione aveva ravvisato l’insussistenza del reato per mancato raggiungimento della soglia di punibilità: il Tribunale di Brindisi si era discostato da tale affermazione, statuendo che l’imposta non versata superasse il limite di 50mila euro, omettendo di motivare, inoltre, in ordine al requisito del periculum in mora. Per il ricorrente, invece, a seguito del pagamento di alcune rate, il debito era sceso a 49.982 euro, ovvero al di sotto della soglia penale: di qui, l’insussistenza del reato e l’illegittimità della misura del sequestro preventivo.
 
La pronuncia della Cassazione
La Corte suprema ha rigettato il ricorso, condannando altresì il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
I giudici di legittimità, nel confermare l’immunità da censure della pronuncia impugnata, hanno precisato che la rideterminazione del debito tributario sotto la soglia penale era conseguente esclusivamente al pagamento rateale di parte dell’importo a opera dell’indagato. La mera rateizzazione del debito (e il pagamento, tra l’altro a distanza di anni, di alcune rate), infatti, non elide la punibilità di una condotta che si basa chiaramente sul mancato versamento di un’imposta dichiarata di importo almeno pari a 50mila euro.
 
La sussistenza del reato (e, di conseguenza, la legittimità della misura cautelare) avrebbe potuto essere messa in discussione solo attraverso un accordo con l’Amministrazione finanziaria o un provvedimento di autotutela parziale (sgravio) da parte della stessa, che avesse fissato l’importo del quantum dovuto (sin dall’inizio) dal contribuente al di sotto della suindicata soglia.
 
Ulteriori osservazioni
Il reato di omesso versamento Iva (articolo 10-ter del Dlgs 74/2000) è stato introdotto dal Dl 223/2006, allo scopo di arginare la cosiddetta “frode da riscossione”.
L’interesse tutelato dalla norma incriminatrice è quello del Fisco alla tempestiva ed efficace riscossione delle imposte così come autoliquidate dallo stesso contribuente.
Si tratta di un reato che ricorre sempre più spesso, soprattutto a causa delle difficoltà finanziarie (di liquidità) in cui versano i contribuenti.
 
Numerose sono state, quindi, le pronunce chiamate a delineare tale reato e a chiarirne gli aspetti problematici (tra cui, anche la questione di costituzionalità relativa alla decorrenza temporale del nuovo reato). Quella in esame conferma un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato che, in relazione allo specifico reato, ha statuito la legittimità della misura del sequestro preventivo per equivalente.
 
In particolare, secondo la sentenza n. 30140/2012, l’accordo raggiunto con l’Amministrazione finanziaria per il versamento rateale dell’Iva non determina l’estinzione del reato di omesso versamento. Tale accordo potrebbe al più costituire una circostanza attenuante ai sensi dell’articolo 13 del Dlgs 74/2000.
Conseguentemente, il sequestro per equivalente resta legittimo e le sue ragioni vengono meno solo una volta ultimato il pagamento rateale concordato, perché fino ad allora il profitto del reato (coincidente con l’importo dell’Iva incassata e non versata) resta, seppur parzialmente, nella disponibilità del contribuente.
L’unica possibilità concessagli, in tal caso, è quella di ottenere riduzioni in ragione degli importi versati, attraverso la richiesta di revoca parziale della misura cautelare.
Né varrebbe a legittimare la revoca della misura la prestazione di una garanzia fideiussoria: come insegna un autorevole precedente in materia di sequestro (Cassazione, sentenza n. 36095/2009) secondo cui i beni sottoposti al vincolo cautelare non sono suscettibili di sostituzione attraverso una fideiussione da costituire presso un istituto di credito, trattandosi di una garanzia personale di pagamento non equipollente rispetto al bene sequestrato. In altri termini, secondo la Cassazione, la fideiussione contrasta con la ratio stessa della misura cautelare in questione, che rimane comunque quella di evitare che il responsabile del reato possa trarre beneficio dall’attività illecita perpetrata e, pertanto, impone una diminuzione patrimoniale corrispondente al profitto (finalità per certi aspetti “sanzionatoria”). Questa finalità non potrebbe in nessun caso essere raggiunta spostando l’obbligazione sul terzo.
 
Gli stessi principi sono stati ribaditi dalla successiva sentenza n. 33587/2012 che, in merito alle differenze tra tale misura e la garanzia fideiussoria, precisa come l’obiettivo che si vuole raggiungere con il sequestro è anzitutto quello di impedire che l’autore del reato continui a usufruire di quello che è stato il profitto del reato stesso. Tale scopo non può essere raggiunto con la fideiussione, in quanto tale garanzia lascerebbe il patrimonio dell’imputato invariato, contraddicendo le ragioni stesse del sequestro.
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