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Giurisprudenza

Violazioni Iva e frode carosello,
colpevole l’amministratore di fatto

Ne risponde come mandatario senza rappresentanza qualora si provi che il gestore sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società e che abbia agito per interesse personale

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La prova del totale asservimento della società di capitali all’amministratore di fatto, legittima l’amministrazione finanziaria a qualificare il gestore uti dominus delle risorse societarie come mandatario senza rappresentanza dello stesso ente collettivo, con l’imputazione alla persona fisica delle violazioni commesse formalmente dall’ente societario con personalità giuridica.

Questo è quanto è stato stabilito dalla Corte suprema nella sentenza del 25 luglio 2022 n. 23231, in cui il tribunale di piazza Cavour ha giustificato, con l’adozione dello schema giuridico del mandato senza rappresentanza, la responsabilità in proprio dell’amministratore di fatto per le violazioni in ambito Iva scaturenti da una frode carosello.

La vicenda processuale
L’Agenzia delle entrate ha emesso avvisi di accertamento Iva, Irpeg e Irap per l’anno 2001 nei confronti di società a responsabilità limitata e persone fisiche, individuate come autori di una frode carosello nel settore della compravendita intracomunitaria di autovetture.
 
In particolare, l’ente impositore – adottando gli elementi istruttori emersi dalle indagini condotte in sede penale – ha qualificato le società di capitali coinvolte nello schema frodatorio come delle mere cartiere fittiziamente interposte dagli effettivi autori delle condotte illecite, “i quali, nella veste di amministratori di fatto, avevano materialmente agito per conto della società, sicché erano costoro gli effettivi autori degli illeciti e debitori d’imposta”.

I destinatari degli atti impositivi hanno proposto ricorso in Cassazione, per ottenere l’annullamento della pretesa erariale.

La pronuncia della Cassazione
Nell’arresto in commento, la Corte di piazza Cavour muove le sue osservazioni richiamando l’orientamento giurisprudenziale contrario alla simulazione assoluta dell’atto costitutivo di una società di capitali iscritta nel registro delle imprese. L’ente collettivo è, difatti, effettivo al di là del proposito degli associati di realizzare con esso un mero schermo societario rispetto a eventuali attività illecite.

Tuttavia, nonostante le premesse, i giudici di legittimità hanno comunque rigettato il ricorso, enunciando degli apprezzabili principi di diritto sulla possibilità di imputare a soggetti terzi le imposte e sanzioni riferite all’attività di un ente societario con personalità giuridica.

In particolare, nel sistema delle imposte sui redditi, è stato posto l’accento sulla disciplina dell’articolo 37, terzo comma, Dpr n. 600/1973, che offre all’amministrazione finanziaria la possibilità, in sede di accertamento, di riallineare ai fini fiscali l’attività svolta da un altro soggetto sull’effettivo percettore dei redditi. Sull’Agenzia delle entrate incombe tuttavia l’onere, esperibile anche mediante elementi indiziari dotati di pregnanza presuntiva, di provare il possesso del reddito per interposta persona, mentre risultano irrilevanti gli elementi costitutivi della stessa interposizione.

Nel caso specifico, per realizzare la traslazione del reddito maturato dal soggetto societario interposto alle persone fisiche interponenti, la Cassazione ha richiesto la prova non solo di una mera gestione dell’ente collettivo, bensì del “totale asservimento della società interposta all’interponente, tale, quindi, da dimostrare a) la relazione di fatto tra l’interponente e la fonte del reddito del soggetto imprenditoriale interposto e b) che il primo sia l’effettivo possessore dei redditi formalmente intestati alla società”. È stata riservata, tuttavia, al contribuente la possibilità di “fornire la prova contraria dell’assenza di interposizione ovvero della mancata percezione dei redditi del soggetto interposto”.

Dimostrati i requisiti del possesso uti dominus delle risorse societarie, la sentenza in commento propone una novità interpretativa in ambito Iva, poiché riconduce la relazione che intercorre fra società interposta e persone fisiche interponenti a un rapporto di mandato senza rappresentanza, “dove il mandatario è un gestore uti dominus e la mandante è la società, sicché, ove le prestazioni di servizi cui il primo abbia partecipato per conto della seconda siano soggette ad Iva, pure il rapporto giuridico tra mandatario e la società interposta è soggetto all’Iva”.

Secondo il Collegio di legittimità, quando l’amministratore di fatto – come nella questione in esame – dispone in autonomia in merito alle attività e alle transazioni, nonché decide per conto del soggetto societario sulla realizzazione delle operazioni commerciali (individuando i venditori e i successivi acquirenti), trova applicazione quanto previsto dall’articolo 6, par. 4, della sesta direttiva 77/388 Cee del Consiglio del 17 maggio 1997, pertanto, si deve ritenere che l’amministratore abbia ricevuto o fornito i detti servizi a titolo personale. Il gestore uti dominus, dunque, assume in nome proprio gli obblighi e i diritti derivanti dal compimento dell’affare trattato per conto della società, ai sensi dell’articolo 3, terzo comma, Dpr n. 633/1972.

Sul piano sanzionatorio, questa qualificazione giuridica inibisce l’applicazione della norma eccezionale introdotta dall’articolo 7 Dl n. 269/2003, poiché l’amministratore di fatto non ha agito a beneficio della società amministrata, bensì ha perseguito il proprio personale interesse. Secondo il tribunale di piazza Cavour “non ha rilievo il rapporto fiscale proprio di quest’ultima [società di capitali interposta, ndr] ma quello che fa capo direttamente all’interponente in quando effettivo possessore del reddito d’impresa, sicché, risultando come se il reddito fosse da lui prodotto, la fattispecie esula dal disposto di cui all’art. 7, d.l. n. 269 del 2003 e le violazioni, pur formalmente dell’ente collettivo, vanno riferite alla sua attività”.

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