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Normativa e prassi

Diritto di abitazione, la convivenza
è provata dall’autocertificazione

La possibilità di continuare a vivere nella casa del compagno defunto, in mancanza di specifiche disposizioni testamentarie, non fa però del superstite parte attiva della successione

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Ai fini del riconoscimento del diritto di abitazione, per dimostrare la convivenza con il de cuius nella casa di quest’ultimo, è sufficiente un’autocertificazione, anche se la coabitazione non risulta da alcun registro anagrafico e il compagno superstite risulta residente in altro luogo. Il riconoscimento del diritto di continuare ad abitare nella casa comune è finalizzato a garantire l’esigenza abitativa del convivente, entro comunque un periodo ben determinato, ma non per questo può entrare nella dichiarazione di successione, poiché manca la qualifica di erede o legatario. È quanto, in sintesi, precisa l’Agenzia delle entrate, con la risposta n. 463 pubblicata il 4 novembre 2019.
 
Risparmio sui tributi con il diritto di abitazione in successione
L’istante è erede, insieme alla sorella, del fratello deceduto senza lasciare testamento. Il defunto, dal 2008, conviveva con una compagna, che pur mantenendo la residenza anagrafica presso un altro comune, si era trasferita, dal 2008, di fatto e in modo ininterrotto, presso la casa di proprietà del de cuius.
L’erede chiede se in mancanza del possesso della residenza anagrafica, esistono altri modi per dimostrare la coabitazione tra il fratello defunto e la compagna, ai fini del riconoscimento del diritto di abitazione, istituto che garantisce, almeno per due anni (e fino a un massimo di cinque), un “tetto” al convivente more uxorio rimasto in vita (articolo 1, comma 42, legge n. 76/2016).
L’istante, prendendo spunto dalla giurisprudenza, sostiene che la residenza anagrafica non rappresenta un elemento determinante per il diritto all’abitazione, ma soltanto una prova “privilegiata”. Chiede, quindi, se la convivenza possa essere adeguatamente dimostrata dalle bollette delle utenze intestate alla convivente del fratello e recapitate all’appartamento del de cuius oppure se è sufficiente una dichiarazione degli eredi in forma di scrittura privata autenticata contenente il riconoscimento della convivenza ultraquinquennale tra la donna e il defunto.
 
L’istante chiede inoltre se, in tal caso, l’ex compagna del fratello possa essere inserita nella dichiarazione di successione quale titolare del diritto di abitazione della casa del fratello, pur non avendo, al momento dell’apertura della successione, la residenza anagrafica presso tale abitazione.
Questa soluzione, afferma l’istante, determinerebbe un risparmio fiscale per gli eredi perché anche la convivente parteciperebbe al pagamento dei tributi relativi alla successione. Inoltre, si legge ancora nell’interpello, in questo modo si eviterebbe una doppia trascrizione nei pubblici registri immobiliari, una prima volta per la denuncia di successione e una seconda per la costituzione del diritto all’abitazione.
 
Nessuna connessione tra successione e possibilità di abitare nella casa condivisa
L’Agenzia delle entrate, per quanto riguarda il primo quesito, conferma che a prescindere dalla residenza anagrafica, lo status di stabile convivenza può essere riconosciuto alla compagna del de cuius anche attraverso una autocertificazione.
 
Quindi, in relazione all’interpello, la convivente superstite può rimanere nella casa del defunto, proprietario unico dell’abitazione, per i tempi previsti dall’articolo 1, comma 42, legge n. 76/2016: "in caso di morte del proprietario della casa di comune residenza il convivente di fatto superstite ha diritto di continuare ad abitare nella stessa per due anni o per un periodo pari alla convivenza se superiore a due anni e comunque non oltre i cinque anni".
 
A sostegno di questa tesi, la risposta riporta i chiarimenti forniti dalla Cassazione con la sentenza n. 10377/2017 secondo la quale “la convivenza “more uxorio”, quale formazione sociale che dà vita ad un autentico consorzio familiare, determina, sulla casa di abitazione ove si svolge e si attua il programma di vita in comune, un potere di fatto basato su di un interesse proprio del convivente ben diverso da quello derivante da ragioni di mera ospitalità, tale da assumere i connotati tipici di una detenzione qualificata, che ha titolo in un negozio giuridico di tipo familiare, con la conseguenza che l'estromissione violenta o clandestina dall'unità abitativa, compiuta da terzi e finanche dal convivente proprietario in danno del convivente non proprietario, legittima quest'ultimo alla tutela possessoria, consentendogli di esperire l'azione di spoglio (cfr. Corte Cass. Sez.2, Sentenza n. 7214 del 21/03/2013; id. Sez. 2, Sentenza n. 7 del 02/01/2014)”. Tale situazione giuridica non immuta, tuttavia, al regime legale della detenzione del bene, in quanto riconducibile ad un diritto personale di godimento che viene acquistato dal convivente in dipendenza del titolo giuridico individuato dall'ordinamento nella comunanza di vita attuata anche mediante la coabitazione, ossia attraverso la destinazione dell'immobile all'uso abitativo dei conviventi(.)”.
 
In sintesi, il convivente non è un semplice ospite del suo compagno, non può vantare alcun diritto di proprietà sull’immobile, ma gli è riconosciuto un “diritto personale di godimento”. Tale diritto è finalizzato a garantire al convivente superstite la tutela del diritto all’abitazione dalle pretese dei successori del defunto per un lasso di tempo ragionevolmente sufficiente per provvedere in altro modo a soddisfare il bisogno abitativo.
 
Riguardo al secondo quesito, invece, la compagna superstite non è legatario dell’immobile perché non c’è alcuna disposizione testamentaria in tal senso, di conseguenza, a differenza di quanto sostenuto dall’istante, la stessa non dovrà essere indicata nella dichiarazione di successione, perché il diritto personale di godimento viene attribuito a chi non è erede o legatario.

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