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Normativa e prassi

Operazione accertata fuori campo Iva:
occorre domanda per imposta versata

Il rimborso del tributo è strettamente collegato alla restituzione al cliente dell’importo erroneamente addebitato e incassato a titolo di rivalsa, quindi incamerato dall’erario

Per rientrare dell’Iva prima addebitata in fattura e poi restituita al cessionario/committente che, a seguito di accertamento con adesione, l’ha riversata all’erario perché indebitamente detratta, il cedente/prestatore deve presentare la richiesta di rimborso all’ufficio competente entro due anni.
È questa la sintesi della risposta n. 66 fornita a una società che, tramite istanza di interpello, ha domandato all’Agenzia delle entrate se fosse possibile rientrare della somma richiedendo al cessionario/committente l’emissione di una nota di variazione Iva, con conseguente recupero dell’imposta nella prima liquidazione periodica utile, ovvero quali fossero, in alternativa, le modalità operative per riavere l’importo dell’Iva corrisposta al cliente. Quest’ultimo, infatti, a seguito di accertamento con adesione, ha riversato allo Stato l’imposta indebitamente detratta per un’operazione ritenuta dall’amministrazione finanziaria fuori campo Iva e, successivamente, ha preteso dalla società interpellante la restituzione dell’imposta che le era stata addebitata in fattura.
 
La risposta
Per l’Agenzia delle entrate, il quesito trova soluzione nell’articolo 30-ter del Dpr 633/1972, introdotto dalla “legge europea 2017” (n. 167/2017), in cui si prevede che “il soggetto passivo presenta la domanda di restituzione dell’imposta non dovuta, a pena di decadenza, entro il termine di due anni dalla data del versamento della medesima ovvero, se successivo, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione” (comma 1), mentre “nel caso di applicazione di un’imposta non dovuta ad una cessione di beni o ad una prestazione di servizi, accertata in via definitiva dall’Amministrazione finanziaria, la domanda di restituzione può essere presentata dal cedente o prestatore entro il termine di due anni dall’avvenuta restituzione al cessionario o committente dell’importo pagato a titolo di rivalsa” (comma 2).
 
Pertanto, il cedente/prestatore può presentare la domanda di rimborso dell’Iva non dovuta, accertata definitivamente, entro due anni dalla restituzione, in via civilistica, al cessionario o committente.
Per motivi di cautela fiscale e per evitare un indebito arricchimento del cedente/prestatore, il rimborso è strettamente collegato alla restituzione al cessionario/committente di quanto erroneamente addebitato e incassato a titolo di rivalsa. Perciò, i due anni entro cui va fatta la domanda decorrono da quando viene restituita al cessionario/committente la somma che ha versato per effetto dell’accertamento definitivo.
Nel caso in esame, pertanto, l’istante può richiedere la restituzione dell’imposta - alla direzione provinciale competente - a decorrere dalla data di rimborso dell’Iva a suo tempo applicata, in via di rivalsa, al cliente.
 
Non è invece condivisibile l’ipotesi, prospettata dalla società, dell’emissione di una nota di variazione Iva, in quanto l’articolo 60, settimo comma, Dpr 633/1972, legittima il cedente/prestatore, chiamato a versare una (maggiore) Iva accertata relativa a una operazione resa, a esercitare il diritto di rivalsa nei confronti del cessionario/committente, una volta pagata l’imposta dovuta, mediante l’emissione di una nota di variazione in aumento (articolo 26, comma 1, Dpr 633/1972). Quindi, l’istante non può chiedere al proprio cliente l’emissione di una nota di variazione in aumento, non avendo lo stesso effettuato alcuna operazione fiscalmente rilevante ai fini Iva per cui ricorre l’obbligo di certificazione. Né l’esercizio del diritto civile alla restituzione dell’Iva indebitamente corrisposta può essere documentato con fattura o nota di variazione.
 
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