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Normativa e prassi

Whistleblowing diventa legge
con un look ampiamente rinnovato

Le linee guida adottate dall’Anac prevedono modalità anche informatiche e promuovono l’utilizzo di strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante

Dopo il via libera definitivo della Camera dei deputati, arriva in Gazzetta Ufficiale la legge 179/2017, “Disposizioni per la tutela degli autori di segnalazioni di reati o irregolarità di cui siano venuti a conoscenza nell’ambito di un rapporto di lavoro pubblico o privato”.
 
La struttura del provvedimento. L’intervento sul 54-bis
Si tratta di un primo e significativo intervento sulla disciplina pubblicistica del whistleblowing, con modifiche attese da quasi due anni all’articolo 54-bis (“Tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti”) del Dlgs 165/2001. La norma ha poi innovativamente esteso anche al settore privato le tutele, pur se con molti sostanziali distinguo.
La legge è composta da tre articoli:
  • l’articolo 1 modifica l’articolo 54-bis del Dlgs 165/2001, con l’intento di incoraggiare l’utilizzo di un istituto che, lungi dall’essere percepito come facilmente percorribile, stenta a entrare nella sensibilità del dipendente pubblico
  • l'articolo 2 introduce adeguate forme di tutela anche nel settore privato
  • l’articolo 3 è volto ad armonizzare la novella legislativa con il rapporto tra lavoratore e riservatezza, rimuovendo eventuali ambiguità applicative. 
Una prima lettura del novellato articolo 54-bis può portare a ritenere che le modifiche apportate non abbiano significativa rilevanza. Una più approfondita disamina dei termini adottati dal legislatore sembra, invece, condurre a ben differenti conclusioni.
Innanzitutto, la segnalazione del dipendente deve avere come interesse esclusivo quello dell’integrità della pubblica amministrazione: sotto un profilo oggettivo risulta così esclusa la rilevanza di quelle segnalazioni che sottendono la finalità di cagionare un danno al destinatario della stessa, ciò allo scopo di evitare di incoraggiare le vendette trasversali nell’ufficio pubblico.
 
Eliminazione del requisito della “buona fede” del segnalante
Una significativa modifica approvata dal Senato ha portato alla soppressione, rispetto al testo approvato dalla Camera, del requisito della “buona fede” dell’autore della segnalazione o denuncia, che risultava chiarito nell’articolo 1, all’inizio del comma 2: quest’ultimo definiva, ai fini della nuova disciplina, la buona fede come la ragionevole convinzione, fondata su elementi di fatto, che la condotta illecita si fosse verificata e prevedeva che la buona fede fosse, in ogni caso, esclusa qualora il segnalante avesse agito con colpa grave; il Senato ha opportunamente soppresso la definizione legislativa di “buona fede” e la necessità di tale profilo soggettivo, che avrebbe eccessivamente limitato il ricorso all’istituto.
 
La scomparsa del “superiore diretto” per la ricezione della segnalazione
Il destinatario “interno” della comunicazione del dipendente non è più il superiore gerarchico, evidentemente ritenuto troppo vicino (e forse attinto dalla segnalazione per non aver evitato che il caso di maladministration sorgesse) per garantire la sicurezza della “schermatura” ovvero la terzietà nella disamina della segnalazione, ma il responsabile della Prevenzione della corruzione e della Trasparenza, figura di sicura garanzia all’interno dell’Amministrazione.
Sempre a questo proposito, il dipendente ora “segnala”, e non più “riferisce” le condotte illecite di cui sia venuto a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro. Anche in questo caso, più che a una mera modifica formale, ci si trova di fronte a un intervento sostanziale, in quanto il verbo “riferire” sembra sottendere una comunicazione confidenziale piuttosto che la formalizzazione di un esposto, seppur canalizzata internamente all’ente.
 
La segnalazione di illecito da parte del dipendente è invece considerata una vera e propria denuncia solo se rivolta all’autorità giudiziaria ordinaria o a quella contabile: così, il whistleblowing inviato all’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), appropriatamente, non è più definito “denuncia”, bensì “segnalazione”. Le denunce sono infatti formalmente destinate o all’autorità competente in materia disciplinare, per l’irrogazione della relativa sanzione, ovvero a una autorità giudiziaria, per la sentenza o il decreto di competenza.
 
La condotta illecita di cui il pubblico dipendente è venuto a conoscenza è formalmente relativa al suo personale rapporto di lavoro (“in ragione del proprio rapporto di lavoro”) e non più al generico “rapporto di lavoro”. Anche in questo caso, si tratta di una aggiunta non irrilevante, in quanto la percezione dell’illecito da parte del dipendente deve proprio avvenire in ragione della sua veste di impiegato pubblico: in altri termini, la segnalazione dovrebbe essere istituzionalmente canalizzata in conformità all’articolo 8 del codice di comportamento dei dipendenti pubblici (… il dipendente … fermo restando l’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria, segnala al proprio superiore gerarchico eventuali situazioni di illecito nell’amministrazione di cui sia venuto a conoscenza …”), ma ciò non avviene per il timore di misure ritenute ritorsive.
 
L’estensione dell’ambito oggettivo della tutela
Le misure ritenute ritorsive dall’articolo 54-bis risultano ampliate e specificate, per più compiutamente tutelare il dipendente: vengono espressamente aggiunti il demansionamento e il trasferimento nonché, residualmente, “altra misura organizzativa avente effetti negativi”; gli effetti di tali misure, pur se ritorsive, devono essere, comunque, realmente negativi (non solo diretti, peraltro, ma anche indiretti, con ciò aumentando sostanzialmente l’efficacia della tutela).
 
La segnalazione dell’adozione di provvedimenti ritenuti ritorsivi nei confronti del segnalante (comma 3 del precedente testo) è comunicata, in ogni caso, dall’interessato, o dalle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative nell’amministrazione nella quale le stesse sono state poste in essere, ad Anac. Quest’ultima prende, dunque, il posto del dipartimento della Funzione pubblica, cui erano precedentemente indirizzate comunicazioni della specie (in coerenza con le modifiche apportate alla legge 190/2012 dal Dl 90/2014, che ha concentrato nell’Anac tutte le competenze in materia di prevenzione della corruzione in precedenza in capo al Dfp) e che, comunque, mantiene la competenza ai provvedimenti (e ora anche alle attività) di competenza, nel nuovo testo unitamente agli “altri organismi di garanzia o di disciplina” (ad esempio, l’Organismo indipendente di valutazione o l’Ufficio procedimenti disciplinari).
 
L’estensione della tutela ad altri dipendenti oltre a quelli della Pa
Il nuovo comma 2 identifica con maggior precisione il soggetto legittimato alla segnalazione, non più, genericamente, “dipendente pubblico”, bensì lavoratore delle amministrazioni pubbliche di cui all’articolo 1, comma 2 dello stesso decreto 165, ivi comprese le pubbliche amministrazioni in regime di diritto pubblico (all’articolo 3), gli entri pubblici economici ovvero di diritto privato sottoposti a controllo pubblico ai sensi dell’articolo 2359 del codice civile.
Inoltre, l’applicabilità della disciplina del whistleblower è da ora estesa anche ai lavoratori e ai collaboratori delle imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione pubblica. Si tratta di una misura coerente con il codice di comportamento dei dipendenti pubblici, che all’articolo 2, comma 3 estende, per quanto compatibili, gli obblighi di condotta previsti dal codice stesso ai collaboratori a qualsiasi titolo di imprese fornitrici di beni o servizi e che realizzano opere in favore dell’amministrazione.
 
La disposizione relativa alla tutela della riservatezza sul nome del segnalante, ora al comma 3, risulta riordinata ed estesa: essa innanzitutto viene formulata come divieto di carattere generale.
È poi chiarito che nell’ambito del procedimento:
  • penale, l’identità del segnalante è coperta dal segreto nei modi e nei limiti previsti dall’articolo 329 cpp
  • dinanzi alla Corte dei conti, l’identità del segnalante non può essere rivelata fino alla chiusura della fase istruttoria. 
La portata del divieto di rivelazione dell'identità del segnalante è quindi di fatto circoscritta al solo ambito del procedimento disciplinare(fermo restando, ovviamente, il segreto d’ufficio), purché la contestazione dell’addebito disciplinare sia fondata su accertamenti distinti e ulteriori rispetto alla segnalazione, anche se conseguenti alla stessa.
Se la contestazione è fondata, in tutto o in parte, sulla segnalazione, e la conoscenza dell’identità del segnalante è indispensabile per la difesa dell’incolpato, questa è utilizzabile ai fini del procedimento disciplinare solo in presenza di consenso del segnalante alla rivelazione della sua identità. A differenza del passato, anche in tale ultima ipotesi il dipendente può comunque inibire la rivelazione della sua identità in seno al procedimento disciplinare, anche se è evidente che la stessa azione disciplinare è destinata ragionevolmente a esaurirsi senza effetti.
Sostanzialmente analogo è il comma 4, per il quale la segnalazione è sottratta all’accesso documentale, previsto dagli articoli 22 e seguenti della legge 241/1990, e successive modificazioni e integrazioni.
 
Attribuzione ad Anac di rilasciare apposite linee guida
L’Autorità nazionale anticorruzione, sentito il Garante per la protezione dei dati personali, adotta apposite linee guida relative alle procedure per la presentazione e la gestione delle segnalazioni.
Le linee guida prevedono l’utilizzo di modalità anche informatiche e promuovono il ricorso a strumenti di crittografia per garantire la riservatezza dell’identità del segnalante e per il contenuto delle segnalazioni e della relativa documentazione.
L’Anac ha già adottato linee guida sui suddetti profili con la determinazione 6/2015Linee guida in materia di tutela del dipendente pubblico che segnala illeciti (c.d. whistleblower)”.
 
L’Agenzia delle entrate è già “compliante
A questo proposito, l’Agenzia delle entrate ha da tempo implementato un canale informatico “dedicato” per la gestione delle segnalazioni interne sul portale intranet dell’Agenzia, utilizzando un link “dedicato” che attraverso una apposita piattaforma prevede una semplice compilazione guidata di alcuni campi, con la possibilità di allegare documenti a supporto dei fatti segnalati. Addirittura, per stimolare la collaborazione, non è obbligatoria l’indicazione delle generalità del soggetto segnalante.
Il grado di tutela e sicurezza è massimo: tutte le informazioni sono crittografate e non viene conservato alcun dato che potrebbe, anche in futuro, identificare la postazione di lavoro da cui è stata effettuata la segnalazione.
La decodificazione è possibile solo per il “Rpct ”, che può colloquiare con il segnalante, anche se anonimo, attraverso il codice attribuito alla segnalazione, in modo tale da garantire la massima riservatezza e sicurezza sia alla segnalazione iniziale che agli eventuali successivi contatti.
 
Solo un cenno per ricordare che dal febbraio 2015 al maggio 2017 (vedi comunicato stampa), tramite la predetta piattaforma whistleblowing dell’Agenzia delle entrate sono pervenute ben 223 segnalazioni. Tutte analizzate e nei casi più gravi è stata coinvolta l’Autorità giudiziaria competente.
 
La competenza di Anac all’irrogazione di sanzioni
Se durante l’istruttoria, l’Anac accerta l’adozione di misure discriminatorie nei confronti del dipendente da parte di una delle amministrazioni pubbliche o di uno degli enti di cui al comma 2, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria da 5mila a 30mila euro a carico del responsabile, fermi restando gli altri profili di responsabilità (idem est civile, oltre che di performance). Molto severa la sanzione per l’adozione di procedure non conformi alle citate linee guida o l’assenza di procedure per la gestione delle segnalazioni (da 10mila a 50mila euro).
L’Autorità nazionale anticorruzione applica poi la sanzione amministrativa da 10mila a 50mila euro a carico del responsabile, nel caso di mancato svolgimento di attività di verifica e analisi delle segnalazioni ricevute. L’Anac determina la misura della sanzione, tenuto conto delle dimensioni dell’amministrazione o dell’ente cui si riferisce la segnalazione.
 
L’introduzione di un regime presuntivo
In base al comma 7, compete all’amministrazione o all’ente l’onere di provare che le misure discriminatorie o ritorsive adottate nei confronti del segnalante sono motivate da ragioni estranee alla segnalazione e che gli atti discriminatori o ritorsivi sono nulli. La formulazione letterale relativa alla nullità non specifica che se si tratti esclusivamente degli atti discriminatori o ritorsivi presi a seguito della segnalazione; appare tuttavia ragionevole interpretare il dettato normativo in tal senso.
 
Il reintegro del lavoratore licenziato per discriminazione o ritorsione
Il segnalante che sia licenziato a motivo della segnalazione è reintegrato nel posto di lavoro ai sensi dell’articolo 2 del Dlgs 23/2015..
In base a tale norma il giudice, con la pronuncia con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio a norma dell’articolo 15 della legge 300/1970, e successive modificazioni (Statuto dei lavoratori), ovvero perché riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge (ed è appunto questo il caso), ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, compresa quindi una pubblica amministrazione, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto.
In aggiunta, è previsto il risarcimento del danno subito e il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dovuti dalla data di licenziamento a quella di reintegrazione.
 
La clausola di esclusione delle tutele
Le tutele offerte dal nuovo articolo 54-bis non sono garantite nei casi in cui sia accertata, anche con sentenza di primo grado, la responsabilità penale del segnalante per i reati di calunnia o diffamazione o, comunque, per reati commessi con la denuncia di cui al comma 1 ovvero la sua responsabilità civile, per lo stesso titolo, nei casi di dolo o colpa grave.
Si tratta di una vera e propria clausola di esclusione, solo in parte prevista nel testo dell’articolo 54-bis ante riforma, secondo il quale “fuori dei casi di responsabilità a titolo di calunnia o diffamazione, ovvero per lo stesso titolo ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile …” è sino a oggi implicitamente necessaria la definitività della sentenza e non è presente il richiamo ai reati commessi con la denuncia.
 
Meno rischi per il whistleblower
È stata soppressa dal Senato la disposizione (già comma 8 dell’articolo 1) secondo la quale, ove al termine del procedimento (penale, civile o contabile) o all’esito dell’attività di accertamento dell’Anac risulti l’infondatezza della segnalazione e l’assenza di buona fede da parte del segnalante, questi è sottoposto a procedimento disciplinare che, secondo quanto previsto dai contratti collettivi, può concludersi anche con il licenziamento senza preavviso. Ciò non solo in coerenza con l’eliminazione del requisito della buona fede del segnalante.
 
Infatti, la definitiva previsione offre opportunamente, rispetto al passato, maggior tutela al dipendente che segnala, per evitare di penalizzare ulteriormente nel nostro Paese il ricorso a un istituto che, in una fase che può ancora essere definita iniziale, mostra una scarsa diffusione, se non addirittura una forte ostilità: spesso il whistleblowing è equivocato con la delazione, situazione del tutto non sovrapponibile con quello che invece rappresenta un importante strumento giuridico per prevenire e combattere comportamenti illeciti o irregolari perpetrati all’interno di istituzioni e imprese di particolare rilevanza nell’ambito di un’effettiva ed efficace lotta alla corruzione.
 
La tutela del dipendente privato: modifiche al decreto 231
L’articolo 2, come detto, allarga al settore privato la tutela del dipendente o collaboratore che segnali illeciti, di cui sia venuto a conoscenza per ragioni del proprio ufficio, attraverso modifiche al decreto legislativo 231/2001 sulla responsabilità amministrativa degli enti.
Tale norma ha introdotto in Italia la responsabilità amministrativa da reato degli enti, società e associazioni (anche prive di personalità giuridica) privati, nonché degli enti pubblici economici.
 
In altri termini, gli enti sono responsabili (con la conseguente applicazioni di sanzioni amministrative) per reati ben individuati commessi da soggetti apicali (con funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione) ovvero da dipendenti, purché la commissione del reato sia avvenuta nell’interesse o a vantaggio dell’ente.
L’articolo 6 del Dlgs 231 prevede che siffatta responsabilità sia esclusa in presenza di particolari condizioni, connesse all’adozione e all’attuazione da parte dell’ente di un modello di organizzazione e gestione.
 
Nello specifico, l’ente non risponde se prova che:
  1. l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto illecito, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della specie di quello verificatosi
  2. il compito di vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli e di curare il loro aggiornamento è stato affidato a un organismo dell’ente dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo (il cosiddetto organismo di vigilanza)
  3. le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione
  4. non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte dell’organismo di vigilanza. 
Le caratteristiche dei modelli di organizzazione e di gestione
In relazione all’estensione dei poteri delegati e al rischio di commissione dei reati, i modelli di organizzazione devono rispondere alle seguenti esigenze:
  1. individuare le attività nel cui ambito possono essere commessi reati
  2. prevedere specifici protocolli diretti a programmare la formazione e l’attuazione delle decisioni dell’ente in relazione ai reati da prevenire
  3. individuare modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee a impedire la commissione dei reati
  4. prevedere obblighi di informazione nei confronti dell’organismo deputato a vigilare sul funzionamento e l’osservanza dei modelli
  5. introdurre un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.  
L’articolo 2 consta di un’unica disposizione di modifica dell’articolo 6 del Dlgs 231/2001, intervenendo sui modelli di organizzazione e di gestione dell’ente idonei a prevenire reati, con l’aggiunta di tre nuovi commi: 2-bis, 2-ter e 2-quater.
 
La segnalazione del dipendente privato. Divieto di discriminazione
Il comma 2-bis attiene ai requisiti dei modelli di organizzazione e gestione dell’ente e prevede uno o più canali che, a tutela dell’integrità dell’ente, permettano a coloro che a qualsiasi titolo rappresentano o dirigono l’ente, nonché a coloro che di questi sono sottoposti alla direzione o alla vigilanza, di segnalare in maniera circostanziata condotte costituenti reati o violazioni del modello di organizzazione e gestione dell’ente, di cui siano venuti a conoscenza in ragione delle funzioni svolte o della posizione rivestita.
 
È significativo come la norma escluda i collaboratori a qualsiasi titolo dagli obblighi di segnalazione, probabilmente per la strutturazione della novella, rivolta ai rapporti di lavoro.
Opportunamente, l’introducendo comma 2-bis dispone che i modelli di organizzazione prevedano – anziché l’obbligo dei dirigenti e loro sottoposti di presentare direttamente le segnalazioni – l’implementazione di uno o più canali per la trasmissione delle segnalazioni in argomento a tutela dell’integrità dell’ente; tali canali debbono essere idonei a garantire la riservatezza dell’identità del segnalante nelle attività di gestione della vicenda; vi deve altresì essere indispensabilmente “almeno un canale” alternativo idoneo a garantire con modalità informatiche la riservatezza dell’identità del dipendente privato che segnala.
 
Le segnalazioni delle condotte illecite o della violazione del modello di organizzazione e gestione devono essere circostanziate e fondate su elementi di fatto che siano precisi e concordanti (analogamente all’articolo 54-bis, risulta escluso il requisito della buona fede, che avrebbe eccessivamente limitato il ricorso all’istituto), senza che sia parimenti richiesta la “ragionevole convinzione” dell’illiceità delle condotte, come nell’originario testo Camera.
I modelli di organizzazione devono prevedere sanzioni disciplinari nei confronti di chi violi le misure di tutela del segnalante e anche per chi effettui, con dolo o colpa grave, segnalazioni che si rivelino infondate.
 
È imposto, infine, il divieto di atti di ritorsione o discriminatori, diretti o indiretti, nei confronti del segnalante, per motivi collegati direttamente o indirettamente alla segnalazione.
La trasgressione del divieto comporterà evidentemente l’applicazione di una delle predette sanzioni.
L’adozione di misure discriminatorie nei confronti dei soggetti segnalanti (comma 2-ter) può essere oggetto di denuncia all’Ispettorato nazionale del lavoro per i provvedimenti di competenza, oltre che da parte dell’interessato, anche da parte dell’organizzazione sindacale indicata dal medesimo, senza che sia previsto un obbligo di denuncia; a differenza delle misure discriminatorie, non è invece prevista la denuncia in caso di misure di ritorsione.
 
Il comma 2-quater statuisce la nullità del licenziamento ritorsivo o discriminatorio del segnalante.
Risultano inoltre nulli il mutamento di mansioni ai sensi dell’articolo 2103 del codice civile, oltre a qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti del segnalante.
Analogamente a quanto previsto nel settore pubblico, è il datore di lavoro – in caso di controversie legate all’irrogazione di sanzioni disciplinari o all’adozione di misure con effetti negativi sulle condizioni di lavoro (demansionamento, licenziamento, trasferimento, altra misura organizzativa), successive alla segnalazione – il soggetto onerato a provare che l’adozione di tali misure sia estranea alla segnalazione fatta dal dipendente.
 
La non punibilità della rivelazione del segreto
L’articolo 3 del nuovo provvedimento, quanto alle ipotesi di segnalazione o denuncia effettuate sia nel settore pubblico (articolo 54-bis, Dlgs 165/2001) sia in quello privato (articolo 6, Dlgs 231/2001), introduce, come giusta causa di rivelazione del segreto d’ufficio (articolo 326 cp), del segreto professionale (articolo 622 cp), del segreto scientifico e industriale (articolo 623 cp) nonché di violazione dell’obbligo di fedeltà all’imprenditore da parte del prestatore di lavoro (articolo 2105 cc), il perseguimento, da parte del dipendente pubblico o privato che segnali illeciti, dell’interesse all’integrità delle amministrazioni (pubbliche e private) nonché alla prevenzione e alla repressione delle malversazioni.
 
La giusta causa della rivelazione appare, in buona sostanza, come una vera e propria scriminante, a ineludibile condizione che sussista un interesse preminente (concretamente, l’interesse all’integrità delle amministrazioni) che rende doverosa o consentita tale rivelazione.
Deve, pertanto, sussistere “un interesse positivamente valutato sul piano etico-sociale, proporzionato a quello posto in pericolo dalla rivelazione, e che la rivelazione costituisca l’unico mezzo per evitare il pregiudizio dell’interesse riconoscibile in capo all’autore della stessa” (tribunale Napoli, 15 gennaio 2003).
 
In altri termini, il legislatore sarebbe ricorso a una formula espressiva destinata a limitare e contenere il meccanismo repressivo, evitando così di avviare l’azione penale, in difetto di cause di giustificazione vere e proprie, in tutti quei casi in cui non si possa pretendere di osservare il precetto in quanto risultano contemporaneamente presenti, a seconda dei casi di:
  • di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo
  • di obblighi di segno contrario
  • della necessità di tutelare gli interessi confliggenti con rango pari o superiore rispetto a quello protetto dalla norma incriminatrice, in un ragionevole bilanciamento di valori (Corte costituzionale, sentenza 5/2004).  
Peraltro (comma 2), la giusta causa non opera ove l’obbligo di segreto professionale gravi su chi sia venuto a conoscenza della notizia in ragione di un rapporto di consulenza professionale o di assistenza con l’ente, l’impresa o la persona fisica interessata. Anche in questo caso emerge l’interesse protetto dalla norma nel suo complesso, che è quello di salvaguardare la posizione del lavoratore dipendente.
 
Il comma 3 introduce una deroga alla sussistenza della giusta causa, nei casi in cui notizie e documenti che sono comunicati all’organo deputato a riceverli siano oggetto di segreto aziendale, professionale o d’ufficio: in tali casi la rivelazione con modalità eccedenti rispetto alle finalità dell’eliminazione dell’illecito e, in particolare, la rivelazione al di fuori del canale di comunicazione specificamente predisposto a tal fine costituisce violazione del relativo obbligo di segreto.
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